L'alba di Monet di Marziano Bernardi

L'alba di Monet L'IMPRESSIONISMO HA 100 ANNI L'alba di Monet E' certo la più celebre mo- stra artistica di tutti i tempi quella di cui quest'anno ricor- re il centenario: la mostra che segnò — si potrebbe dire anagraficamente — la data ufficiale di nascita dell'Impressionismo, non perché i suoi partecipanti si dichiarassero « Impressionisti », ma per la presenza d'un quadro di Monet, dipinto a Le Havre nel 1872, Impression. Soleil levant, che suggerì al critico Louis Leroy il titolo d'un articolo burlesco e denigratorio sul Cbarijuui, uscito dieci giorni dopo l'inaugurazione: «Exposition des Impressionnisles». Casuale, del resto, anche il titolo del quadro che avrebbe simbolizzato la più radicale rivoluzione pittorica (e d'ogni forma d'arte in genere) dell'età moderna prima del Cubismo. Edmond Renoir, fratello del pittore, s'era incaricato della stampa del catalogo delle opere esposte. Dubbioso che in questa di Monet il visitatore sbalordito potesse « riconoscere » il porto di Le Havre, interpellò l'autore, che indifferente rispose: « Mettez Impression ». Un'indifferenza che ben rispondeva a uno degli aspetti della poetica impressionistica. Non era, comunque, una parola nuova. L'avevano usata Delacroix nel suo Journal, Zacharie Astruc scrivendo della Lise di Renoir esposta nel Salon del 1868 (« uniti et nette té d'impression »); il vocabolo ritornava frequente nelle discussioni al Café Guerbois, dove teneva cerchio Manet, già riconosciuto dai giovani innovatori un maestro, benché non amasse — lui ambizioso di esporre ai Salons e di mantenersi nella sua aristocratica sfera sociale — mischiarsi troppo alla loro rivoluzione e in un certo senso avallarla. L'anno innanzi il suo Le Bon Back, ritratto dell'incisore Belloc, grasso e barbuto con la pipa in bocca ed in mano un bicchierone di birra, era piaciuto al Salon persino ai suoi avversari, ma lo irritava il rifiuto di Monet, Pissarro, Sisley, Cézanne di partecipare a quell'esposizione ortodossa ch'egli, col critico Théodore Duret, pur favorevole agli Impressionisti, sosteneva esser l'unica a dare la fama a un artista; ciò che invece, deciso a respingere ogni compromesso estetico, negava il battagliero gruppo, che già nel 1867 aveva tentato di allestire a proprie spese una mostra, progetto allora abbandonato perché tutti insieme non erano riusciti a raggranellare che 2500 franchi, ma sette anni dopo — ripresane l'idea da Monet — finalmente realizzato. Si trattava, come avrebbe poi scritto nel 1946 il miglior storico dell'Impressionismo, John Rewald, «di appellarsi al grande pubblico con una manifestazione che prometteva di avere più prestigio che non una partecipazione al Salon », sempre problematica perché sottoposta al giudizio di giurie ostili, e inoltre limitata, nel caso più fortunato, a tre sole opere. Ma l'organizzazione era difficile. Chi invitare? Degas, che in fondo non condivideva certe convinzioni degli amici (e la sua pittura lo dimostra), temeva che la mostra apparisse una sfida al Salon, raccomandava di estendere l'invito a quanti fosse possibile dei consueti espositori di questo, «per non dare all'iniziativa un carattere troppo rivoluzionario»; e perciò insistette, inutilmente, per avere la partecipazione di Manet, Tissot, Legros, Henner, Guillemet, col quale ultimo Corot si felicitava : « Tu as jolìment bien fait de t'échapper de cette bande-là». Queste cose, benché risapute, conviene ripeterle per dissipare la leggenda dello spirito polemico contro la tradizione e soprattutto contro il gusto «borghese». Una finissima scrittrice d'arte, Eveline Schlumberger, esaltando negli Impressionisti i « peintres du bonheur », i pittori della gioia di dipingere ad ogni costo (e intanto Monet non riusciva nemmeno a pagarsi il biglietto ferroviario per recarsi dalla sua Camillo alla nascita del figlioletto) ha di recente perfettamente chiarito il loro rapporto col pubblico, la loro posizione di fronte all'arte: « Affermarsi liberi di dipingere, nel modo che gli piaceva, tutto ciò che gli piaceva»: il fremito atmosferico, la luce cangiante, l'« impressione » fuggente, i colori come li vedevano fuori dell'tf/elier e magari le ombre violette e i volti verdi e azzurri, la vita pulsante intorno; sopportando per questa felicità qualsiasi disperazione, anche quelle che « egoisticamente » suscitavano in famiglia. Diceva Renoir: « Noi abbiamo la gioia di dipingere; se poi ci coprissero d'oro, la nostra sorte sarebbe troppo bella ». E questa, al di là dell'estetica, è l'etica degli Impressionisti. Ma non si proponevano un programma rivoluzionario; non intendevano scandalizzare né contestare nessuno, od inven tare un mondo ed una società diversi con un'arte « autre ». Volevano invece mostrarsi al pubblico, come non potevano farlo al Salon, e convincerlo della loro verità. Non erano dei teorici; erano piuttosto i « primitivi » di un'epoca che si sarebbe affermata: agivano — fu detto giustamente — « senza pensare ». Composta dunque, con titolo prudente, una semplice «Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs» (soci fondatori Monet, Renoir. Sisley, Pissarro, Degas, Berihe Morisot), l'esposizione si aprì il 15 aprile 1874 in alcuni locali concessi (pare gratuitamen te) dal fotografo Nadar, amico degli artisti, frequentatore del Café Guerbois, al secondo piano d'un palazzo in rue Daunou, angolo boulevard des Capucines, con 165 opere. Di queste, compresi i disegni, i pastelli, gli acquerelli, Degas ne esponeva 10, Monet 12, Cézanne 3, Renoir 6, Sisley 5, Pissarro 5, la Morisot 9, Guillaume 3. Le altre erano di 20 autori, dei quali citeremo soltanto i più noti: Boudin, Bracquemont, Cals, Latouche, Lepic, Lépine. L'italiano De Nittis rischiò di rimanere escluso per mancanza di spazio, ma Degas, qualche giorno dopo l'inaugurazione, trovò posto per il suo quadro. Durata della mostra, un mese, anche la sera; biglietto d'ingresso 1 franco, catalogo 50 centesimi. In principio fu affollata da un pubblico schiamazzante che s'indignava o rideva di quei quadri che gli apparivano incomprensibili, «sparati» — diceva qualcuno — sulla tela da una pistola carica di colori. Qualche intenditore però capì; qualche critico sensibile reagì, quantunque i saggi del Duranty, del Rivière, del Duret dovessero venire più tardi. Finanziariamente, un fiasco. Tuttavia Pissarro scriveva al Duret da Pontoise ai primi di maggio: « Notre exposition va bien. Cesi un succès. La critique nous abtme et notts accuse de ne pas étudier ». E intanto il termine « Impressionismo» veniva accettato dal gruppo; e la battaglia sarebbe durata per altre sette esposizioni, fino al 1886, anno in cui si chiuse l'età eroica degli Impressionisti. Questa la storia della famo sa mostra « chez Nadar ». Per l'altra, più importante, della nuova visione figurale che av viava l'arte su vie mai prima battute, non occorre spender parole, tante se ne sono dette e scritte. Si può sintetizzarle con queste, chiarissime anche per il lettore comune, del Rewald: « Il nuovo accostamento alla natura aveva gradualmente permesso ai pittori di preparare una nuova tavolozza e creare una nuova tecnica conforme al loro tentativo di fermare il gioco fluido della luce. L'accurata osservazione della luce colorata che appariva in momenti particolari li aveva indotti a farla finita con le consuete ombre nere e ad usare colori luminosi. Li aveva anche indotti a ignorare i colori locali, subordinando la nozione astratta di toni locali all'effetto atmosferico generale. Applicando il colore con colpi netti, erano riusciti a macchiare i contorni degli oggetti e a fonderli con gli elementi circostanti... Ma, soprattutto, il gran numero di tocchi evidenti e i reciproci contrasti eran serviti a esprimere o a suggerire la vivacità, la vibrazione della luce e a riprodurle, fino a un certo punto, sulla tela». Se non che con la « nuova tecnica » — che ne era lo strumento espressivo ottico e manuale — un nuovo rapporto s'era instaurato tra l'artista e il mondo intellettuale e concreto, coinvolgendo un concetto di « socialità » che andava contro le vecchie gerarchie dei rapporti umani: non per nulla la pittura impressionistica era guardata con sospetto dai politici conservatori. L'immagine apparentemente eterna di una realtà ancora immanente, mitica, maestosamente intangibile, nume da adorare con religioso fervore, entrava in crisi con una pittura che la faceva scendere dagli altari per misurarla con una sensazione individuale, la « petite sensalion » che Cézanne, con accanito studio, intendeva carpire dal motivo naturale. La natura fino allora era rimasta la grande estranea, una sorta di deità che ancora per i pittori di Barbizon, nella foresta di Fontainebleau, conservava una solennità mitica. Ma parlando di Monet, il critico Duret osservava che il paesaggio era rappresentato « non più soltanto in ciò che ha di immobile e permanente », bensì nei suoi « aspetti fuggitivi » secondo la visione del pittore, gelosamente personale. Così cominciava la grande avventura d'uno sfrenato individualismo artistico, di cui ogni giorno, adesso, abbiamo sott'occhio le estreme conseguenze. Solo un ventennio corre dall'ultima mostra degli Impressionisti alle Demoiselles d'Avignon. E Picasso non avrebbe potuto dipingerle se prima di lui non ci fosse stato l'Impressionismo. Marziano Bernardi

Luoghi citati: Le Havre