Luigi Einaudi piemontese

Luigi Einaudi piemontese Luigi Einaudi piemontese La grandezza di Luigi Einaudi, fu Gobetti il primo a rivelarmela. Studente dell'ultimo anno di Legge, avevo frequentato senza grande entusiasmo le lezioni di Scienza delle Finanze. Einaudi mi era apparso soltanto nelle vesti di maestro difficile, tutto assorto fra le cifre, e poco incline all'indulgenza verso i grilli giovanili. Gobetti, mio compagno di corso, Einaudi lo aveva invece avvicinato già da qualche anno, chiedendogli degli articoli per Energie Nove; ed ora, in quell'Aprile del 1922, su uno dei primi numeri di Rivoluzione Liberale, ne tracciava un ritratto penetrante e ad un tempo affettuoso, che non mi si è mai cancellato dalla memoria. «L'uomo», scriveva Gobetti, « appena conosciuto, ispira solida fiducia. Spoglio di qualità decorative, libero dagli atteggiamenti falsi — enfatici o conciliativi-— che la società convenzionale impone a chi se ne lasci dominare. Esercita, senza teorizzarla, una inorale di austerità antica di elementare semplicità ». E' questa « morale antica » che predomina nel mio ricordo di Luigi Einaudi: di un Einaudi che vorrei chiamare, se non temessi di parer irriverente, paesano: un uomo che incarna ancor oggi ai miei occhi quelle che un tempo si chiamavano le « patrie virtù ». Anche su questo punto, Gobetti mi aveva messo sull'avviso, coll'additare le profonde radici della personalità e del pensiero di Einaudi nella nostra terra piemontese; e sempre quell'avvertimento mi era tornato alla mente quando, in anni successivi, ebbi la ventura di frequentare Einaudi più assiduamente. Erano gli anni più opachi del fascismo, gli anni in cui Einaudi affidava il meglio di se stesso alle limpide pagine della Rivista di Storia Economica. Al giovedì sera, eravamo ormai più in pochi a riunirci intorno a lui nella casa ospitale di via Lamarmora, dove, a render più cordiale l'incon tro, un bicchiere di schietto vino langarolo non mancava mai. Poi, colla bella stagione, si andava a trovarlo a Dogliani, in mezzo ai suoi vigneti; e talora era lui stesso, sfidando il caldo e la fatica, ad accompagnar l'ospite in cima ad un poggio elevato, donde la vista spaziava sull'ampia distesa delle Langhe: quasi vo lesse invitarlo a misurar coll'occhio il contrasto fra i ben coltivati poderi e la nudità delle colline circostanti, ed a fargli toccar per mano « l'opera tacita che la terra da sé compie, rifiutando i suoi frutti a chi non li merita, espellendo i proprietari incapaci od ignari ed attirando, colla promessa di frutti più larghi, i volonterosi e laboriosi ». La terra fu la grande passione di Einaudi, il tema che, a differenza di quelli consueti, riusciva a strappare alla sua prosa scabra ed asciutta accenti di autentica poesia. Su questo punto almeno, mi sembra del tutto fuorviarne il titolo che Ruggiero Romano ha voluto decretargli, di « demitizzatore », di « grande demolitore di miti ». Il mito della terra è costantemente presente in Einaudi, e non ispira soltanto certe sue teorie economiche, che non spetta a me giudicare, ma la sua concezione della storia non meno della sua visione della vita. Era il mito della terra resa feconda dal sudore degli uomini, e degli uomini a lor volta temprati dal diuturno cimento con una natura avara e matrigna. Ed era anche il mito di un patrimonio di civiltà pazientemente accumulato col volgersi delle generazioni, e dell'ordinata convivenza di un popolo grazie alla fermezza dei caratteri ed alla sicurezza del domani. « La terra è un edificio ed un artificio », intitolava Einaudi una sua ampia recensione dei Saggi di economia rurale di Carlo Cattaneo, rilevando come questi conoscesse a fondo e studiasse la Lombardia, sua regione nativa: terra dai fattori naturali ugualmente propizi alla palude malarica ovvero all'agricoltura più progredita del mondo. Furono gli uomini a saper trarre profitto di questi fattori. Ma la terra faticosamente conquistata non andava difesa soltanto dalle insidie della natura, bensì anche dall'invidia e dalla cupidigia dei vicini: di qui la necessità di frontiere ben definite come quelle che all'Italia sembran porgere le Alpi. Eppure — rileva ripetutamente Einaudi — quei confini « che a noi oggi paiono e sono naturali» furono anch'essi frutto dell'opera dell'uomo. « Confini giusti e saldi non si conseguono sen¬ za lotte aspre, combattute con animo virile e col proposito di rendere la vita più bella e sicura alle generazioni venture ». L'aver assicurato questi confini « dalla parte d'Occidente » era il merito che Einaudi rivendicava al Piemonte. «Per lo più, al Piemonte viene data gloria, e meritata gloria, per l'opera sua di iniziatore delle guerre di indipendenza; dimenticando così che quest'opera non avrebbe neppure potuto esser concepita se con un lavoro tenace, durato un secolo e mezzo, i principi di casa Savoia ed i popoli piemontesi non avessero combattuto e sofferto e armeggiato per assicurare a sé stessi il confine naturale delle Alpi». E' su un lembo di terra come questo, reso saldo e sicuro da una vigilanza solerte, che poteron fiorire quelle virtù civili e morali che costituivano per Einaudi la forza del vecchio Piemonte. Non erano doti natie, com'egli notava ricordando il giudizio poco lusinghiero degli ambasciatori veneti nel Cinquecento, e la ferrea disciplina con cui Emanuele Filiberto aveva « costretto i piemontesi del tempo suo, poltroni famigerati tutti, nobili e plebei, a divenire il popolo guerriero per antonomasia fra gli italiani ». Vorrei, se mi è permesso, ricordare in proposito un incontro che ho ancor vivo nella memoria, ed a cui risale la mia scoperta di un Einaudi assai diverso dall'immagine di freddo estimatore di cose economiche che più spesso si conserva di lui. Mi par che fosse nella primavera del '39, ed io mi ero recato, come spesso facevo, a porger un saluto a Einaudi alla fine del seminario che egli teneva al Laboratorio di Economia, a quei tempi alloggiato in un vecchio convento in via Po. Lo trovai con aperto sul tavolo un libro, da poco pubblicato, di Adolfo Omodeo, intitolato Un reazionario: il Conte ]. de Mais re. Einaudi mi chiese se l'avessi già letto, ed io gli risposi che avevo effettivamente gustato la lettura degli articoli che Omodeo aveva pubblicato negli anni precedenti su La Critica, e che ora figuravano raccolti in questo volume. Einaudi scosse la testa, quasi fosse scontento della mia risposta. « Quel titolo di reazionario », esclamò, « pregiudica le cose sin dall'inizio. Maistre non fu soltanto questo. Lo si può, lo si deve giudicare anche sotto un'altra luce». Poi d'un tratto, come se avesse voluto iniziare un altro discorso, mi chiese: « Ha mai letto Un homme d'autrefois? ». Gli risposi di sì, che me l'avevan fatto leggere da ragazzo; e lui a sua volta incalzando osservò che allora do¬ vevo ricordare quell'episodio narrato dal Costa de Beauregard, l'amico di Maistre, del reggimento di Moriana disciolto in autunno, dopo che la Savoia era caduta in mano ai rivoluzionari francesi; e del colonnello che a Susa, il giorno fissato per la sua ricostituzione l'inverno seguente, fa tracciar sulla neve la pianta dell'accampamento, e nonostante il freddo terribile si mette a passeggiar in lungo e in largo, «come un padron di casa in attesa degli ospiti », e infine dei soldati fedeli alla consegna, che sfidando le nevi e le sentinelle francesi arrivano alla spicciolata, « come i ruscelli finiscono per formare il fiume», facendo sì che in pochi giorni il reggimento si trovi ricomposto nella quasi pienezza dei suoi effettivi. « Quello, quello era l'antico nostro Stato piemontese », concluse Einaudi, « e se non si muove da quello come si può sperare di valutare esattamente il pensiero di Joseph de Maistre? ». Notai che nel pronunciare queste parole Einaudi s'era tutto commosso; mi parve anzi di scorgere due lucciconi in quegli occhi che ero uso a veder brillare, dietro alle lenti, di finissima arguzia oppure di insaziabile curiosità intellettuale. Questo ritratto di Einaudi come uomo all'antica — come un homme d'aulrefois — mi rendo ber conto che lascia nell'ombra tutta quella parte della sua figura che è passata alla storia, che può anzi sembrar di volerla rimpicciolire, quella figura, entro i termini angusti di una tradizione paesana. Ma io credo fermamente che chi voglia intender appieno quale fosse la matrice donde vennero a Einaudi le mirabili doti di carattere e l'autorità che sembrava innata nella sua persona, non può non tener conto della parte che ebbe in lui quello che ho chiamato il mito della terra, la vena schiettamente sentimentale che era pur sempre presente in un uomo c.nc pareva — ed era — tutto ryione. Lo conferman d'altronde, se ve ne fosse bisogno, alcune sue parole, scritte or sono esattamente quarant'anni in occasione della morte di un collega amatissimo, Francesco Ruffini. « L'autorità sua morale gli veniva, sì, dagli sludi, dagli uffici coperti e dalla vita intemerata: ma anche dall'essere sempre stato legato alla terra che aveva visto nascere lui ed i suoi. Là dove il contadino è tenace nel conservare la casa avita e lo scienziato insigne cerca in essa il conforto degli ultimi anni e il riposo ultimo, non v'ha tramonto, ma perpetua rinascita ». A. Passerin d'Entrèves

Luoghi citati: Dogliani, Italia, Lombardia, Piemonte, Savoia, Susa