"lo ho diretto le indagini sulla strage e me ne assumo tutte le responsabilità,, di Piero Cerati

"lo ho diretto le indagini sulla strage e me ne assumo tutte le responsabilità,, Il dibattimento a Trieste per i tre carabinieri uccisi a Peteano "lo ho diretto le indagini sulla strage e me ne assumo tutte le responsabilità,, Così ha detto il colonnello dei carabinieri Mingarelli - La dichiarazione è importantissima perché tutto il processo è indiziario - Il suo racconto, che continuerà domani, è stato interrotto più volte dai difensori (Dal nostro inviato speciale) Trieste, 8 aprile. Al processo per la strage di Peteano (un'auto-bomba uccise tre carabinieri: Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco De Giovanni) ha deposto, stamane, durante la sesta udienza in corte d'assise, il colonnello dei carabinieri Luigi Mingarelli, che diresse le indagini. Imputati sono: Romano Resen, 33 anni; Gianni Mezzorana, 28; Furio Larocca, 26; Giorgio Budicin, 26; Maria Mezzorana, 30; Enzo Badin, 23, in stato d'arresto; Anna Maria Scopazzi, 23 anni, a piede libero. Sono tutti di Gorizia, Mingarelli, comandante la legione carabinieri di Udine, ha raccontato le indagini dalla notte del 31 maggio 1972, quando a Peteano, presso Gorizia, scoppiò la vettura che uccise i tre carabinieri e ne ferì due, sino all'identificazione degli imputati quali presunti responsabili della strage. Mingarelli ha fatto una premessa: «L'indagine sin dallo sccppio è stata diretta da me; tutti gli ufficiali sono stati ai miei ordini: assumo io solo la paternità di quanto avvenuto». E' una dichiarazione importante perché gli imputati respingono le accuse, il processo è indiziario e ogni udienza potrebbe riservare una sorpresa, una svolta clamorosa nella vicenda. La strage di Peteano avvenne in un periodo difficile per il nostro Paese: cariche di tritolo esplodono e sono trovate presso il monumento alla Resistenza a Trento (gennaio 1971); a Catanzaro una bomba uccide un ope¬ raio durante una manifestazione di sinistra; ordigni esplodono a Milano (febbraio 1971); una carica salta davanti alla casa del procuratore generale Bianchi d'Espinosa (dicembre 1971); tre esplosioni avvengono a Milano contro la sede dell'Unità, alle lapidi dei Caduti nella Resistenza e in piazzale Loreto; ad Aurisina, presso Trieste, si scoprono plastico, tritolo, detonatori in una cava: sono i primi mesi del 1972; a maggio, la strage di Peteano; in settembre il fermo di Nardi e Stefano, estremisti di destra (ora sospettati per l'uccisione del commissario Calabresi) al valico svizzero di Brogeda con una Mercedes piena di armi e gelatina esplodente (3 chili); nell'ottobre Ivano Boccaccio, di Ordine Nuovo, cerca di dirottare un Fokker all'aeroporto di Trieste: in un conflitto a fuoco con la polizia è ucciso. Stamane Mingarelli ha raccontato: «Una telefonata anonima fece intervenire i carabinieri di Gradisca a Peteano: abbandonata c'era un'auto forata da colpi di pistola. Eravamo già in allarme perché era in atto un'operazione ordinata dal ministero dell'Interno, per reprimere piani criminosi. Tre Giulie giunsero sul luogo: quando un carabiniere azionò la leva del cofano, avvenne l'esplosione. A questo punto, l'ufficiale ha detto: «Richiamo l'attenzione su un fatto», provocando l'intervento della difesa: «Lei non richiama nessuno, non siamo suoi sottoposti». E' stata la prima d'una lunga serie di eccezioni sollevate dai difensori sulla procedura, in quanto Mingarelli non è stato interrogato, ma ha fatto relazione di «cose svolte, sentite, di indagini e accertamenti»; sulla mancanza di verbali, a proposito degli interrogatori di personaggi comparsi nel processo istruttorio e ora non più citati (tra gli altri il commerciante Manera, che vendette un'arma all'imputato Resen; Bruno Furlan, facente parte del gruppo accusato, poi fuggito all'estero e ora in carcere); sulla posizione degli attuali imputati durante gli interrogatori («Erano denunciati o accusati? Perché mancarono le garanzie di legge, come la presenza dell'avvocato difensore?»), eccezioni che sono culminate in un «incidente formale», che la corte ha respinto. Superati questi scogli, che denotano la difficoltà di ritessere la tela del processo istruttorio, avvenuto in nove mesi di indagini «con irregolarità che proveremo», sostiene la difesa, il colonnello Mingarelli ha ripreso la sua deposizione. Aveva di fronte tre piste, ha detto, quella rossa, quella ne ra, quella locale. Pista rossa: i sospetti caddero su Lotta Continua di Trento a causa di una voce confidenziale («di un voltagabbana»). «La pista rossa ci sembrava la più logica e naturale», ha detto Mingarelli («A verbale, a verbale», ha gridato la difesa), ma cadde perché il confidente aveva detto il falso; la pista nera «non diede elementi di riscontro»; la pista locale diventò concreta quando Walter Di Biaggio, il 1° agosto del 1972, «mi fornì alcune indicazioni — ha detto il colon nello —; io non gli credetti, poi nel novembre lo presi in considerazione e vagliai le sue dichiarazioni». Da quel momento, il Di Biaggio, ex amante abbandonato di Maria Mezzorana, diventò (ed è ancora) il teste d'accusa più importante: attorno alle sue parole l'inchiesta è girata fino alla conclusione. Sua l'indicazione della provenienza dell'esplosivo (il T4 fabbricato soltanto in Gran Bretagna e Stati Uniti): dalla Svizzera, da un cantiere presso Petrinati, dove i carabinieri si recarono per un sopralluogo: «Avevo avuto dal mio comandante l'autorizzazione a indagare in tutta Italia e all'estero», ha spiegato stamane Mingarelli; sua la descrizione degli incontri in casa di Maria Mezzorana durante i quali alcuni imputati avrebbero deciso di compiere l'attentato per vendicarsi delle continue perquisizioni dei carabinieri (il gruppo era sospettato di furti); sua la descrizione dei nascondigli dell'esplosivo (sotto il tavolo nella sala d'ingresso nella casa della Mezzorana «trovammo la nicchia», ha detto Mingarelli) e dell'auto rubata (una baracca, «la scoprimmo a Gorizia, nel cortile dove abita Gianni Mezzorana», ha spiegato il colonnello). Il Di Biaggio fu arrestato il 16 ottobre 1971 per un ordine di carcerazione, ma anche dalla prigione continuò a fornire particolari sulla vicenda. «Aveva colloqui con la sua amica. Maria Mezzorana, come risulta dai registri», ha precisato il colonnello; ma poiché era l'ennesima volta che sbagliava i nomi confondendo la Scopazzi e la Mezzorana, quest'ultima, per protesta, ha abbandonato l'aula e ha mormorato: «Dica la mora e la bionda, almeno così non si confonde più». Perché, si è chiesto Mingarelli (ed ha provocato l'intervento della difesa, che ha detto: «Presidente, arriviamo al punto che il teste si pone le domande da solo»), Di Biaggio si era deciso a parlare? Per avere la taglia? (trenta milioni); per avere la libertà provvisoria? (ha un processo che l'aspetta e la previsione di «almeno vent'anni di galera», dicono i legali degli imputati); per rancori personali? (era stato abbandonato dall'amica). «Di Biaggio mi disse che aveva paura di essere compromesso nella strage — ha spiegato Mingarelli — in quanto aveva partecipato alle riunioni iniziali con gli imputati ed aveva aiutato il Resen a portare l'esplosivo su un camion dalla Svizzera», Le accuse di strage agli imputati sarebbero suffragate da un altro episodio. «Parlerò della confessione indiretta del Budicin», ha detto Mingarelli; e la difesa lo ha interrotto: «Budicin non è stato interrogato secondo le norme di procedura, lei non può riferire le sue parole», ma il presidente ha fatto segno di continuare Budicin, ex calciatore, si recò un giorno dal colonnello Mingarelli e gli avrebbe parlato «di un colloquio in casa di Mezzorana e nella carrozzeria dove lavorava Larocca durante i quali sarebbero state pronunciate le seguenti frasi: "Basta con queste perquisizioni, sarebbe bene che saltassero in aria", minaccia rivolta ai carabinieri — ha detto Mingarelli —; e "Quei bastardi ci hanno incastrati, ma io piglierò poco, gli altri finiranno all'ergastolo" insulto riferito non ai carabinieri — ha sostenuto Mingarelli —, ma ai complici nella convinzione di essere stato da essi tradito. Budicin parlò con me perché aveva paura. Quando lo invitai a dire tutto per scagionarsi, mi rispose: "Non ho niente da riferire". Io ho intuito qual è stato il concorso marginale di Budicin nella vicenda, ma non ho prove». «Lo dica», ha chiesto la difesa. «Non può dirlo — è intervenuto il presidente — e alle domande risponderà domani. Ora siamo stanchi. Chiudo l'udienza». Piero Cerati