Il coraggio della pace di Igor Man

Il coraggio della pace CHE COS'È CAMBIATO NELL'EGITTO DI SADAT Il coraggio della pace Vinto il complesso d'inferiorità, il regime ha scelto la convivenza con Israele e la ripresa economica con l'aiuto americano (Dal nostro inviato speciale) Il Cairo, aprile. All'apparenza nulla è mutato. Il « colore » è il solito: le strade gonfie di traffico caotico; le sale da tè brulicanti, i popolani in galabia e gli impiegati in abito scuro (un piccolo tappeto o un giornale sotto le ginocchia) si genuflettono in piena piazza Soliman Pacha per la preghiera del mezzodì; gli obiettivi fotografici dei turisti di Kansas City o di Piacenza puntati sul venditore ambulante di caffè che suona i cimbali per richiamare l'attenzione sul suo enorme fiasco di vetro, pieno della aromatica bevanda, nera e schiumosa a causa delle scosse subite dal bizzarro recipiente Barche solari Il Cairo è più bella che mai, dalla terrazza d'un albergograttacielo lo sguardo spazia su di un paesaggio incomparabile: l'aguzzo profilo dei cinquecento minareti della « Vittoriosa » graffiano il cielo di ceramica, le piramidi sfumano nel deserto, le acque del Nilo riverberano una luce che spalma sulle case toni metafisici e le pietre, antiche e moderne, acquistano un inedito color violaceo di carne mortificata. Le feluche che risalgono il fiume sfiorano con la cima dell'albero le arcate del «Ponte dei Leoni», son sempre le stesse, immutabili barche solari dei Faraoni. Ma tutt'intorno spira un'aria nuova, elettrica: e la gente finalmente parla. Della «guerra rigeneratrice», degli errori del passato, delle speranze d'un futuro migliore all'insegna della ricostruzione, del « liberalismo » di Sadat, della pace con Israele. Una volta parlava lui solo, Nasser, per tutto un popolo. La gente taceva. Ottanti — e non sono pochi — sono rimasti fedeli alla memoria del rai'ss pretendono che il « silenzio collettivo » dipendesse dal fatto che Nasser era veramente l'interprete degli egiziani di cui recepiva sogni, desideri, istanze sociali, al punto che il popolo lo aveva coralmente delegato a rappresentarlo. Quanti — e sono molti — si riconoscono in Sa¬ dat (« uno statista coraggioso, un contadino coi piedi per terra ») dicono semplicemente che la gente non parlava perché terrorizzata dalle quattro polizie che, a furia di controllarsi a vicenda, finivano col controllare l'intera popolazione. Un amico, giornalista di Al Ahram, mi dice che se Nasser è stato indubbiamente il protagonista del più audace tentativo di liberare gli egiziani dalla loro mi¬ seria, dalla loro umiliazio- ne, dallo sfruttamento stra- niero, è certo che « non osò mai assumere né i metodi né i rischi di una vera rivoluzione, la quale presupponeva la democratizzazione del potere e soprattutto il co- raggio di voler fare la pace con Israele ». Sadat ha abolito la censura sulla stampa, ha dato fiato all'assemblea nazionale (il Parlamento), ha soppresso lo stato del Mokhabarat, i servizi speciali di i polizia, ha fatto un autodafé pubblico di centinaia di bo- bine su cui erano registrate conversazioni private, telefoniche e dirette; ha chiuso i campi di concentramento e sfollato le carceri dei de- j tenuti politici; Sadat cerca | il «dialogo» con Israele tra mite l'America su cui ha puntato tutte le sue carte « con una audace scommessa » incentrata sul binomio pace-ricostruzione. Forte di una « vittoria » che ha avuto come corollario il disimpegno delle forze sul Canale, Sadat mostra di volersi assumere quei rischi che Nasser non aveva mai voluto correre. L'ex terrorista e compagno di strada dei « Fratelli musulmani », il duro che nel rapido volgere di ore, nel maggio del 1971, stroncò il tentativo di Putsch di Ali Sobri e compagni, ha scelto la linea morbida, in politica come in economia. La liberalizzazione economica, l'alleggerimento dei controlli, la riapertura delle importazioni, gli incoraggiamenti e le facilitazioni per gli investimenti esteri, dovrebbero garantire, grazie alla combinazione capitale arabo-tecnologia americana, il decollo economico d'un Paese stremato da troppi anni di privazioni e sacrifici. Il socialismo nasseriano, come ha scritto Jean Lacouture, era in realtà un capitalismo di Stato « animato dal populismo, reso fervido dal fermento patriottico e dalla calda personalità del ra'iss ». Rimodellato da Anuar el Sadat, questo socialismo, che non aveva mai cessato di essere « qualcosa più di un obiettivo sognato», tende a dissolversi sotto la spinta di forze e interessi finora bloccati dall'immobilismo del « settore pubblico » e dall'impotenza di quello private. Dopo la « vittoria », forte , „ 1 ** SS^SSuS&SUè.^. ' "' dat ha invertito decisamente la rotta ma in realtà il processo di trasformazione del regime egiziano era cominciato tre anni fa, praticamente all'indomani della, non plebliscitaria, nomina del « vicario » a Presidente della Repubblica. Ora che tutti parlano liberamente, si scopre come in questi tre anni l'Egitto apatico, psicologicamente sedentario, del sottosviluppo, abbia avuto la sua « rivoluzione culturale » Assurto al potere, Sadat « tentò di riplasmare il regime sul metro dei suoi talenti; non potendo imporsi come il suo carismatico predecessore, aveva scelto di rendersi gradito, così optò per le libertà individuali ». Allentata, sia pur di poco, la morsa delle polizie segrete, non potevano mancare i contraccolpi: l'abortito Putsch di Ali Sabri, le jacqueries contadine del maggio 1971, gli operai di Heluan che nell'agosto di quello stesso anno proclamano l'autogestione, la lunga contestazione studentesca. Il regime vacilla ma il dibattito pubblico è entrato nella vita quotidiana. Sadat sembra subirlo, in verità è lui stesso ad alimentarlo con decisioni e discorsi che ai cronisti appariranno sconcertanti quando non grotteschi ma che ora si rivelano dettati da un preciso disegno politico. Oggi sappiamo che i suoi slogans, spesso ridicolizzati. « La preparazione del fronte interno » (1972), «Il confronto totale» (gennaio del 1973), erano corroborati da un paziente lavoro diplomatico per tessere la tela di quella « unità araba » che doveva esercitare un peso decisivo nel conflitto, da una accurata preparazione bellica e psicologica. Il 6 ottobre, mentre il mondo parla di « colpo di testa determinato dalla disperazione », il popolo egiziano non si stupisce, accetta la guerra come un evento ineluttabile, non solo, ma la combatte e bene. Tre anni di regime caratterizzato da un maggior rispetto delle libertà individuali, non hanno dato al popolo egiziano né benessere né felicità ma senz'altro una maggiore consapevolezza esistenziale, la capacità di discernere tra il vero e il falso e soprattutto di « rinnegarsi in vista di un possibile risultato ». L'equazione La guerra ha cancellato una umiliante equazione: Israele = vittoria, Egitto = sconfitta. La prima guerra « popolare » dell'Egitto ha restituito agli egiziani la dignità, l'orgoglio di essere arabi, ne ha rivelato l'insospettabile maturità. Stupisce francamente la misura con cui la gente parla della « vittoria »; l'interpretazione che i giornali danno delle interviste di Sadat a Newsweek e Time è realistica e costruttiva: volontà di pace, di sviluppo economico dell'intera regione, fiducia negli Stati Uniti, conferma nei fatti della esistenza di Israele come entità che fa integralmente parte del Medio Oriente. Un diplomatico tornato in auge mi dice che Sadat « vuol trasformare la natura del conflitto tra gli arabi e Israele. Per 25 anni si è parlato di Israele come di un corpo estraneo alla regione. Ora Sadat tende a trasfor- I mare il conflitto in una sorta i di " divergenza " fra Stati della stessa zona geo-politi- j ca, i quali hanno comuni interessi di sviluppo e perciò di pace. L'America sembra aver ricevuto il " messaggio egiziano ", ma Israele? ». Igor Man