Oggi il presidente della "Montedison,, davanti al magistrato per i fanghi rossi di Filiberto Dani

Oggi il presidente della "Montedison,, davanti al magistrato per i fanghi rossi II processo a Livorno per gli scarichi nel Tirreno Oggi il presidente della "Montedison,, davanti al magistrato per i fanghi rossi Altri otto gli imputati, fra cui l'amministratore delegato della società, il direttore dello stabilimento di Scarlino ed il comandante delle navi che riversavano in mare il biossido di titanio - Costituiti parte civile "Italia Nostra" e la Camera di Commercio di Ajaccio (Dal nostro inviato speciale) Livorno, 3 aprile. Il fascicolo è alto poco meno di un metro, contiene più di cinquemila fogli — verbali, perizie, ordinanze — raccolti in cinque volumi: è la storia, in chiave giudiziaria, dei «fanghi rossi» della Montedison di Scarlino. L'ultimo capitolo, quello del processo, verrà scritto domani in un'aula della pretura di Livorno. Nove gli imputati: Eugenio Cefis, 53 anni, presidente della Montedison; Alberto Grandi, 50 anni, amministratore delegato; il suo predecessore Giorgio Mazzanti, 56 anni; Marco Miccarelli, 48 anni, direttore dello stabilimento di Scarlino e l'ex direttore Angelo Lorenzi, 50 anni; Cesare Bianconi, 46 anni, direttore della divisione prodotti per l'industria; Guidobaldo Cevidalli, 55 anni, funzionario addetto allo studio dei problemi ecologici; Giacomo Lucherini, 48 anni, e Sauro Massimi, 43 anni, comandante di due navicisterna. La storia dei «fanghi rossi» è la storia di uno dei più grossi inquinamenti marini del nostro tempo. Ha avuto clamore internazionale, ha provocato un diluvio di proteste, tumulti, attentati, ha messo in forse l'occupazione di centinaia di operai. L'accusa, dalla quale i nove imputati dovranno difendersi, ne riassume la sostanza: a tutti, nell'ambito dei rispettivi poteri, viene fatto carico di aver danneggiato «le risorse biologiche dell'Alto Tirreno e del Mar Ligure, immettendo in queste acque, mediante le navi cisterna Scarlino I e Scarlino II, sostanze tossiche derivanti dai residui della produzione di biossido di titanio atte ad uccidere gli organismi marini e distruggere il plancton». C'è un'appendice che riguarda il comandante Sauro Massimi: l'accusa gli contesta anche di aver «deteriorato, rendendole in parte inservibili, le acque territoriali dell'isola di Gorgona, gettandovi sostanze dannose per gli usi della pesca e altri usi pubblici». La storia dei «fanghi rossi» è recente, ma per raccontarla bisogna fare un passo indietro, al 1969, quando la Monte¬ dison costruisce a Scarlino, nel Golfo di Follonica, uno stabilimento per la produzione del biossido di titanio, un pigmento bianco che serve a colorare vernici, smalto, plastica. Ma il biossido di titanio ha un grosso difetto: le scorie della lavorazione sono tossiche, contengono una forte quantità di solfato di ferro (che a contatto dell'acqua diventa rosso), acido solforico e altri veleni. Le tremila tonnellate al giorno di scorie che lo stabilimento si appresta a produrre devono essere eliminate in qualche modo. Ma come? Si decide di scaricare gli incomodi residui in alto mare: una zona a Nord della Corsica, dove esiste una fossa profonda quattrocento metri. Non appena la notizia si diffonde, nasce una grossa polemica. I pareri degli esperti sono discordi, c'è chi sostiene che il mare è in grado di autodepurarsi e quindi di disperdere le scorie con facilità, c'è chi sostiene che quel cocktail chimico procurerà seri guai allo stato di salute del Tirreno. Alla fine, però, l'autorizzazione della Capitaneria di Porto di Livorno viene concessa per sei mesi: è del marzo 1972 e entra in vigore il 20 aprile. Meno di un mese e arriva il primo allarme. E' dei pescatori di Bastia: perché il mare è diventato improvvisamente rosso? Il secondo allarme parte da Viareggio: i pescatori che battono quel tratto di Tirreno, tornano a terra, e riferiscono dell'enorme macchia rossastra che balla sulle onde. I ricercatori del laboratorio di Igiene di Livorno vanno a vedere, prelevano campioni, accertano che il mare si è impoverito di plancton, l'alimento fondamentale della fauna ittica. Si riaccende la polemica. Vengono nominate due commissioni di periti, una ministeriale e una regionale, ma l'indagine non approda ad un unico risultato e ciò perché ognuna di esse opera con diverso metodo. Mancando una chiara indicazione, l'autorità marittima rinnova alla Montedison, di tre mesi in tre mesi, l'autorizzazione allo scarico. Ma ormai la miccia è in¬ nescata, le proteste si allargano, il 21 luglio '72 una denuncia dell'Ente provinciale per il turismo di Livorno provoca l'intervento della magistratura che mette sotto accusa la Montedison. «Italia Nostra» e la Camera di Commercio di Ajaccio si costituiscono parte civile contro i responsabili dell'inquinamento. Questa volta il responso dei periti nominati dal pretore Gianfranco Viglietta (lo stesso che ha rinviato a giudizio gli attuali imputati) non lascia dubbi: «Sussiste il pericolo effettivo, già sospettato fin da epoca molto anteriore all'inizio degli scarichi, di depauperamento del patrimonio biologico del mare o di alterazione delle condizioni ambientali». Gli avvenimenti precipitano: ad Ajaccio ed a Bastia, per protesta contro i «fanghi rossi» scoppiano gravi tumulti; a Follonica un commando corso fa brillare due cariche al plastico sotto la carena della Scarlino II; a Livorno, il pretore ordina il sequestro delle due navi cisterna, mentre la Montedison (che ha già ricevuto una serie di avvisi di reato) reagisce con la sospensione della produzione. Il braccio di ferro fra ecologia e grande industria finisce tra la fine di ottobre e i primi di novembre del '73: una soluzione di compromesso consente al pretore di revocare il sequestro delle navi e alla Montedison di riaprire i cancelli dello stabilimento. Filiberto Dani