Nabokov a Berlino
Nabokov a Berlino Nabokov a Berlino Nel giovanile "Disperazione" l'esule russo gioca con il romanzo Vladimir Nabokov: « Disperazione », Mondadori, pagine 239, lire 3000. Quando scrisse Disperazione, intorno agli Anni Trenta, Nabokov risiedeva a Berlino, nelle confuse e spesso pitto- resche colonie dell'emigrazione russa. Un giorno, ormai romanziere celebre, egli stesso avrebbe tradotto quelle pagine in inglese. Ma come indovinare allora tempi migliori? Giovane, nemmeno trentacinquenne, Nabokov disponeva di una immaginativa fervida, ariosa e ricchissima. Inventava senza sforzo personaggi stravaganti, ideava situazioni sempre eccitanti e spesso simili a giochi di specchi. Tali doni, che avrebbero senza dubbio travolto scrittori meno ambiziosi, lasciavano tuttavia Nabokov inappagato e diffidente. Letterato scaltro, smaliziatissimo, egli temeva difatti la facile foga creativa, le approssimazioni di una vena troppo copiosa o prepotente o sentimentale. Si voleva pensoso, come dimostra la presente opera, calcolato, elegantissimo. Con quali conseguenze, in termini concreti, ognuno vedrà. A una trama che disporrebbe di tutti i migliori requisiti, Nabokov sovrappone a ogni costo arzigogoli, volute bizzarrie, barocchismi e capricciose trovate. Dunque. Pallido, con il grosso naso arcuato e le sottili labbra appena visibili, quasi fossero state leccate via dalla lingua, il protagonista della vicenda, Hermann, appare a primo momento la personificazione della mediocrità, dell'egoismo e della monotonia. Non conosce le soddisfazioni dell'amicizia. Riversa un ottuso, forse morboso affetto sulla pigra e accondiscendente consorte. Un ennesimo figlio della nevrosi e del conformismo, come tanti nella narrativa novecentesca, inevitabilmente condannato a sparire nei gorghi della noia? Ben altro appare il disegno del Nabokov. Durante una trasferta d'affari, ubbidendo a romanzesche esigenze, Hermann incontra un vagabondo, Felix. In un tal uomo, crede ravvisare il proprio sosia, la propria vivente fotografia. Crede, si badi, sotto effetto di autosuggestione. I personaggi doppi, complementari o addirittura partecipi di una stessa natura, magari opposti quanto a carattere ma d'un medesimo stampo, allignano numerosi nel romanzo moderno. A differenza però dello Stevenson e d'un Hugh Walpole, che sopra siffatti temi imbastirono cupe tragedie, Nabokov apparecchia un gustoso imbro glio grottesco. In breve, fidando nella presunta somiglianza, sicuro di ingannare insieme alla polizia i segugi delle compagnie assicurative, Hermann decide con premeditata perfidia di sopprimere Felix. Un delitto perfetto? Piuttosto una beffa della follìa, che consegna l'invasato omicida a un inevitabile destino di espiazione. Tanta ingenuità, sul piano psicologico, potrebbe forse diagnosticare un inconscio autolesionismo. Ma a quale scopo indagare? La verità è altrove, va degustata con esperto palato di letterati. In queste pagine, ora bellissime ora sovrabbondanti, il giovane Nabokov gioca infatti con il romanzo, giallo o meno. Perfino, attraverso la bocca del protagonista, giudica il proprio lavoro. Sogghigna, fa le boccacce e prende le distanze dagli avvenimenti. Quasi, quest'ultimi, non fossero affar suo. Antonio Debenedetti Vladimir Nabokov, visto da Levine (Copyright N. Y. Revlew of Dooks, Opera Mundi c per l'Italia La Stampa)
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