Fascio e corone

Fascio e corone TACCUINO Fascio e corone « Gruppo per l'ordine nero — sezione Celine »: cosi sono firmate alcune bombe esplose a Milano. Il fascismo italiano è diventato europeo. Nel 1938, quando fu pubblicato in Italia Bagattelle per un massacro, non c'era fascista in grado o nella disponibilità di farsene una bandiera. Forse non Io lessero nemmeno quelli che cominciavano a discettare sulla razza; forse nemmeno Mussolini. Lo lessero quelli che amavano le cose di Francia (io credo di averlo letto quando già si era in guerra, avendolo trovato su una bancarella: nuovo costava dodici lire; e ne ebbi l'impressione di una demenza senile, imprestando all'autore di quel delirio la descrizione che Manzoni fa del vecchio che vuole attaccare il vicario, ammazzato che fosse, a un battente della sua porta: « un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa... ». Né sono più riuscito a leggere un libro di Celine, con tutta la rivalutazione che se ne è fatta in questi anni). Vale a dire che lo lessero quelli che non amavano il fascismo. Oggi lo leggono invece i fascisti: il che è sintomo che le cose sono mutate, che i fascisti hanno i loro giusti libri, che il fascismo non è più una cosa fatta in casa con scampoli di malcontento e passamanerie dannunziane. Ed e un fatto da tenere in conto, cui fare attenzione: che troppo si è creduto il fascismo fosse ormai relegato nel folclore, come certe feste patronali che soltanto sopravvivono per l'attaccamento dei vecchi e le offerte degli emigrati. ★ * Eppure questo fascismo più definito e consapevole, intrinsecamente migliorato (e cioè peggiore), non mi preoccupa se non nella prospettiva, per dirla col linguaggio dell'onorevole Moro, di una convergenza parallela con quell'altro indefinito e inconsapevole, indefinitamente e inconsapevolmente disponibile, che si annida e nasconde in luoghi insospettabili, sotto diciture rassicuranti: come in un alberello di farmacia su cui si legge bicarbonato e contiene invece arsenico. Le radici del fascismo sono tante, si allungano e affondano in tante direzioni, in tanti strati: ma le più forti e riconoscibili sono indubbiamente quelle che si diramano e si nutrono nell'intolleranza. E di intolleranza in Italia oggi ce n'è tanta, troppa; al di là di quello che è il caso di chiamare limite di tollerabilità dell'organismo sociale. E poco male se, a qualsiasi grado, si manifestasse soltanto tra individui, parti, fazioni ideologicamente lontane e nemiche; ma si manifesta anche, e più, tra vicini. E ancora c'è da osservare che la destra, nelle sue varietà, ha una interna tolleranza e solidarietà; mentre la sinistra è, in quella che dovrebbe essere la sua parte più viva, tutta un accapigliarsi e scavalcarsi. Si dirà: appunto perché viva. Ma a volte si muore per troppa vitalità. * * Per me, una delle cose più « belle », più giacobine, della Costituzione è la quattordicesima delle disposizioni transitorie e finali: e vorrei intenderla come finale, che mette fine, e non come transitori.i. « I titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati di quelli esistenti prima del 2H ottobre 1922 valgono come parte del nome. L'Ordine manriziano è conservato come ente ospedaliero e funziona nei modi stabiliti dalla legge. La legge regola la soppressione della Consulta araldica ». Per spiegare un tale sentimento, debbo andare ai mici primi dieci anni di vita: come sempre, del resto, per tutti i sentimenti profondi, per gii odi e gli amori più insopprimibili, le idiosincrasie, le piccole e quasi rituali manie, certe ritrosie e paure. Un uomo è, per tutta la vita, quale i primi dieci anni l'hanno fatto. Ed è da allora che un duro pregiudizio verso i nobili, una repugnanza quasi simile a quella che Landolfi, nel suo ultimo bel libro, descrive per le labrene, mi possiede al di là, lo riconosco, del giusto. Questo stato mi è alimentato dal vivere in una città come Palermo, dove spesso si ha occasione di essere presentato a principi, duchi e baroni; dove si ricevono biglietti con corone cancellate da un tratto (si capisce, nobilissimo) di penna; dove persino dal salumiere si sente «quanto parmiggiano, signor barone?» e «il signor duca è stato servito». Con una sola persona sono riuscito a superare questa repugnanza, e anzi a dimenticarla: il poeta Lucio Piccolo. In lui l'esser barone si configurava in una tale inadattitudine e inadattabilità, in un tale candore ed incanto, che non si poteva che amarlo e, al caso, proteggerlo. La ragione lontana di questa mia avversione sta nel fatto che al mio paese, dove l'ultimo barone era morto una diecina d'anni prima che io nascessi, l'ombra di costui dominava ricordi di soperchieria e violenza, di corruzione e malversazione amministrativa. A casa mia, poi, ce n'era un ricordo più vicino e diretto, e più tremendo: il barone si diceva avesse fatto ammazzare un cugino di mio nonno, una giovane guardia campestre della cui moglie si era invaghito. Nonostante il rapporto di dipendenza (il barone era sindaco, o forse sindaco era un suo fratello), la guardia lo aveva ammonito e forse minacciato: che girasse al largo della sua casa, della sua donna. E il barone gli aveva mandato il sicario, a tirargli alle spalle mentre quello abbeverava la giumenta. Dell'agguato, del colpo alle spalle, della terribile condizione della vedova che si era levata, ma inutilmente, ad accusare il barone, mi si faceva un racconto minuzioso: ma in segreto, quasi col timore che il barone potesse ancora, dalle sue spie, venire a sapere quel che si diceva di lui. E ricordo una particolarità piuttosto orrenda: che il colpo che uccise la guardia era fatto, oltre che di lupara, di schegge di canna; e volevano dire atroce irrisione (nel sentire popolare la canna, forse perché data alVecce homo come scettro, è simbolo di scherno; e si ritengono maligne, cioè inevitabilmente destinate a suppurare, le ferite da canna). Mi raccontavano anche, ma con una certa riprovazione, come di cosa che è imprudente fare, che mio nonno, nonostante l'assoluzione che il barone si era presa, continuò a chiamarlo assassino, con chiunque ne parlasse (e specialmente nelle giornate elettorali, poiché la nostra casa dava sulla strada da dove si passava per andare al seggio — ce n'era allora solo uno —, si metteva al balcone e a tutti i conoscenti che passavano diceva: «non votate per quell'assassino »). Tutto questo per dire con quale fastidio vedo i giornali dar titolo di barone, conte e marchese a chi non lo è più; e con fastidio anche maggiore il termine « patrizio », su quei giornali che sentono, per così dire, un certo pudore costituzionale. Il « patrizio » mi fa automaticamente pensare al « plebeo »: e che di plebei ce ne siano ancora, e diversi di quelli della storia, nei luoghi dove meno dovrebbe sentirsi e più invece si sente quello che Longanesi diceva il brivido di piacere del sedere accanto a un duca. * ★ Vittorini diceva che gli avvenimenti civili, anche minimi, lo distraevano ed estraniavano dallo scrivere. E' un male cui sono soggetto anch'io. E per essere un male è un male, che indubbiamente viene da una idea, più o meno inconscia, della letteratura come altra cosa che la vita, dello scrivere come — italianizzando una esattissima espressione spagnola — disvivere. * ★ Dei cretini intelligentissimi. Sembra impossibile: ma ce ne sono. * * Leggo la Vita di Antonio di Atanasio. Hanno ragione F. & L.: un inganno, una mistifi cazione, un libro interamente creato — testo, traduzione, introduzione e note — da Borges o da un borgesiano. Faccio però la constatazione che di libri simili, da qualche tempo, ne sto leggendo molti: Clemente d'Alessandria, Lattanzio, Agostino, Anselmo, Ambrogio. Accade qualcosa a me o sta accadendo a tutti qualcosa per cui questi libri ritornano, per cui nella nostra inquietudine — borgesianamente — li reinventiamo? Leonardo Sciascia

Persone citate: Borges, Celine, Landolfi, Leonardo Sciascia, Longanesi, Lucio Piccolo, Manzoni, Mussolini, Vittorini

Luoghi citati: Alessandria, Francia, Italia, Milano, Palermo