Che cosa deve sapere il medico di domani? di Gabriella Poli

Che cosa deve sapere il medico di domani? Un corso "diverso,, all'Università Che cosa deve sapere il medico di domani? Attualmente, tra 90 materie, non ce n'è una che insegni a conoscere l'ammalato, né il contesto in cui si manifestano i sintomi della malattia - Un tentativo per colmare la lacuna Mi è accaduto di scoprire, nel disastrato quadro che coinvolge università e ospedale, una piccola speranza che forse farà piacere a Gigi Ghirotti e a tutti coloro che hanno trovato voce nella sua testimonianza di « inviato speciale nel lungo tunnel della malattia ». La piccola speranza è rappresentata da un corso di « metodologia semiologica » tenuto nell'Istituto di patologia medica dal prof. Giorgio Bert, un insegnante che ha il coraggio di dire: « Per fare un medico bisogna cominciare da zero; buttar via le cose inutili; mettere il malato al centro; imparare da lui e con lui che cosa non funziona, e perché, nella macchina umana e nell'ambiente ospedaliero in cui si cerca di ripararla ». Le materie per diventare medico sono una novantina, 25 delle quali obbligatorie. Gli studenti sprofondano in una massa sterminata di nozioni, digeriscono bene o male migliaia di pagine, definizioni, tabelle, diagrammi; sostengono una quantità innumerevole di esami e alla fine — dopo 6 anni che per molti diventano 8 o 10 — raggiungono l'obbiettivo «laurea», scalino indispensabile, per i più, dell'obbiettivo «Mutua» che significa tranquillità economica. In questa enorme congerie di notizie manca, agli studenti, qualsiasi approfondimento sull'oggetto della loro futura attività: il malato. Manca anche ogni elementare conoscenza dell'ospedale a cui, trovandosi impotenti a risolvere questo o quel caso, dirotteranno molto spesso i loro pazienti Un vuoto assurdo nei sia pur sovraccarichi «piani di studio», una grave pecca della didattica; e un fatale presupposto di quelle sconfitte del malato che hanno fatto scrivere a Ghirotti: «Il malato è l'unico perdente fisso di tutte le battaglie che si combattono in suo nome». Una delle materie obbligatorie della facoltà di medicina è la «semeiotica», raccolta di segni e sintomi delle varie situazioni patologiche e studio del modo di rilevare gli uni e gli altri. Un arido elenco di rispondenze e di analogie dovrebbe permettere al medico di fare la diagnosi. «Ma è proprio qui — dice il professor Bert — che casca l'asino. Cioè nello studiare la malattia avulsa dall'uomo malato; nel cercare di far quadrare il malato con le caratteristiche di una certa situazione patologica, e non viceversa; nello sforzarsi d'incasellare segni e sintomi senza tener conto del contesto (ambientale, sociale, psicologico) in cui si sono manifestati». Che cosa c'è «dietro» i sintomi? Il corso libero di «metodologia semiologica» si propone di scoprirlo, cioè di mettere a punto un diverso metodo d'individuare la malattia e le sue cause. Prendiamo un individuo che ricorre alla mutua perché soffre di dolori allo stomaco. In genere il medico non ha tempo di appurare che l'uomo è afflitto, ad esempio, da preoccupazioni economiche, o vive malamente in una casa inadeguata, o fa un doppio lavoro che gli riduce il tempo per il pasto a pochi minuti. Ignote così le cause prime del male, dopo qualche cu ra senza effetto il paziente comincia la trafila degli specialisti e de gli esami, che non scoprono nulla di organico. Allora finisce in ospe dale per «ulteriori accertamenti» E qui, in una sequela di giorni spesi inutilmente nei famigerati «vuoti cronici » dell'istituzione, compaiono sintomi nuovi: stipsi, inappetenza, insonnia notturna e sonnolenza diurna. Scattano le terapie del caso: lassativi, sonniferi, tonici. E matura una diagnosi. Che non si cura — perché non ne ha gli elementi — di rispondere alla domanda: «In quale misura l'ospedale guarisce, in quale misu ra contribuisce a far ammalare?». «Nella gerarchia dell'istituzione ospedaliera — dice Bert — la posizione del malato è all'ultimo scalino; tutti hanno un potere, perfino lo studente che indossa un camice. Il malato no, gerarchicamente non esiste. Non ha con troparte. Nessuno lo ascolta, nessuno gli dà retta. Il medico è convinto di dover solo fare una dia gnosi, l'infermiere di dovergli da re quelle date pastiglie. A chi vie ne in mente che quella stipsi, in vece che conseguenza di un disor dine dell'apparato digerente non le sia piuttosto delle vergognose condizioni degli scarsi servizi igie nlcì della corsia? O quell'insonnia sia dovuta al fatto che in ospedale s. caccia la gente a letto alte 8,30 di sera e la si sveglia alle 5,30? O che l'inappetenza ritrovi la suavera causa nel "rancio" freddo e disgustoso di cui efficacemente ha parlato Ghirotti?». Così il corso universitario dal nome difficile si è riempito di nuovi contenuti. Studenti e professore hanno verificato le ipotesi direttamente alla fonte, riunendo malati e infermieri in una comunità di lavoro. E si è constatata la possibilità di fare una didattica tutta diversa nell'ambito della scalcinata struttura ospedaliera: «con» il malato, non più «sul» malato. Dice il professor Bert: «Bisogna che ci decidiamo francamente a scegliere che tipo di medico dobbiamo formare, e una volta che abbiamo messo a fuoco con chiarezza questa scelta, bisogna che il medico di domani impari a capire che cosa vuol dire essere ammalato; ad approfondire il quadro non patologico della malattia; ad introdursi nelle cause che provocano malessere. La sua diagnosi sarà corretta soltanto se avrà saputo inquadrare il sintomo nel contesto dove si è prodotto giungendo alla radice della malattia con la collaborazione del malato». E d'altra parte bisogna che il malato impari a «gestire» la sua malattia, cioè a diventare soggetto attivo, da oggetto qual è ora: cioè incapace di rendersi conto del perché gli fanno un certo esame o una certa cura (nel suo interesse, o nell'interesse di una sperimentazione?), tenuto all'oscuro persino del contenuto di quella lettera — eppure parla di lui e del suo male — che il medico gli ha consegnato, chiusa, da recapitare a un suo collega specialista. Oggi, in un ospedale da duemila letti, come le Molinette, il ricoverato non sa a chi rivolgere una rimostranza o una richiesta. Non alla caposala, non al sovrintendente o al direttore sanitario, autorità sconosciute e inaccessibili. Tanto meno al medico frettoloso, che non ha tempo per spiegazioni né per mediazioni. Cosa ne sa il medico della finestra che chiude male, degli zucchini amari, della purea immangiabile, del brodo che sembra sciacquatura di piatti? O del fatto, molto più grave, che le sue prescrizioni dietetiche sono disattese regolarmente perché non esiste in tutte le Molinette, una cucina specializzata? O dell'impossibilità d: lavarsi o di fare una doccia? Dell'avvilimento che coglie tutti i'ricoverati per non avere un posto | dove scrivere una lettera, leggere | i! giornale, scambiare quattro, chiacchiere? Dell'infinito, deprimente, «tempo morto» durante il weekend (tutto si ferma in ospedale dalle 12 di sabato al mattino di lunedì) che la gran parte dei ricoverati per esami potrebbe, con incalcolabile vantaggio psicologico, trascorrere a casa sua, con la famiglia? Ecco, tutte queste cose e altre ancora imparano gli studenti di «metodologia semiologica» nei loro lunghi incontri con gli ammalati. Domani, caro Ghirotti, saranno forse dei medici diversi. E forse, quando ci saranno loro in ospedale o alla mutua, qualcosa Analmente cambierà nel «lungo tunnel della malattìa». Gabriella Poli

Persone citate: Ghirotti, Gigi Ghirotti, Giorgio Bert