Le "famiglie" dell'industria di Mario Salvatorelli

Le "famiglie" dell'industria Organigramma dell'Italia economica Le "famiglie" dell'industria Sono circa 500, e formano la fascia medio-superiore dell'economia nazionale - Il capitale pubblico sempre più invadente non solo nei settori direttamente produttivi, nel commercio e nei servizi, ma soprattutto nel ramo bancario, la vera e propria "stanza dei bottoni" - L'avanzata dei colossi stranieri (Dal nostro inviato speciale) Roma, marzo. Sono circa 400 le famiglie d'industriali italiani che possiedono in proprio un'azienda di dimensioni medie, già robuste per il nostro Paese, cioè con un fatturato minimo di 3 e massimo di 50 miliardi l'anno. Se si aggiungono le famiglie, una quindicina, che possiedono gruppi o aziende industriali con un fatturato superiore ai 50 miliardi, e le famiglie proprietarie d'imprese attive in altri settori economici (commercio, trasporti, immobili, società finanziarie), si può arrotondare a 500 il numero delle famiglie che formano la fascia medio-superiore dell'economia italiana. La cifra è piccola, ovviamente, in rapporto alla popolazione (in Italia le famiglie, nel senso anagrafico della parola, sono 15 milioni), ma può stupire il fatto che le aziende medie con base azionaria familiare, il cui capitale in altre parole è posseduto totalmente oppure controllato ampiamente da una famiglia, sono oltre il 70 per cento. Citeremo più avanti lo studio dal quale abbiamo desunto questi dati. Ora vorremmo sottolineare il fatto che quando si dice «aziende familiari» non si indica tutto il settore privato dell'economia italiana, dove, appunto, sono numerose anche tra le mediograndi (per non parlare di quelle piccole e dell'artigianato) le società private non controllate da una sola famiglia. Nelle precedenti puntate di questa inchiesta abbiamo visto quale sia il rapporto tra settore pubblico e settore privato nelle « aziende pilota », cioè in quelle 390 più grandi aziende italiane (sopra i 10 miliardi di fatturato annuo) che in pratica «pilotano» il mercato nei rispettivi settori. Quel rapporto attribuisce il 43 per cento del fatturato complessivo al settore pubblico, il 57 a quello privato, che quindi ha la maggioranza, anche senza contare le decine di migliaia di aziende minori. Ma in quelle 390 aziende non sono comprese attività molto importanti, come quella del credito, che può essere considerata, per molti aspetti, la vera «stanza dei bottoni» del potere economico e che non solo è controllata, com'è naturale, dallo Stato, ma in buona parte è di sua proprietà. Banca Commerciale, Credito Italiano, Banco di Roma, Banco di Santo Spirito sono dell'Iri per una quota del capitale azionario che va dal 77,3 al 99,9 per cento, Mediobanca lo è al 51,5 per cento, poi ci sono gli istituti di credito di diritto pubblico, come la Banca Nazionale del Lavoro, come gli ex istituti di emissione degli Stati italiani precedenti l'unità (Banco di Sicilia, Banco di Napoli, eccetera), poi ci sono l'Imi - Istituto mobiliare italiano (oltre 4500 miliardi di finanziamenti «in essere»), il Mediocredito, il risparmio postale, e via dicendo, oltre, naturalmente, la Banca d'Italia. Non contiamo, infine, lo Stato come «datore di lavo- ro» diretto. E quale datore di lavoro: i suoi dipendenti sono circa 1 milione 800 mila, il loro «monte salari» è di oltre 6500 miliardi di lire, senza contare negli uni e nell'altro gli enti di previdenza e le amministrazioni locali. E' chiaro che, a questo punto, il settore privato, inserito nel cerchio immaginario di tutta l'economia nazionale, diventa uno spicchio che potrebbe apparire, anche senza un eccesso d'immaginazione, come una luna all'ultimo quarto, alla vigilia della luna nuova. Ma anche così ridotto, quello spicchio non potrebbe essere disegnato con un colore solo, perché una parte consistente di esso è controllata dal capitale estero. Esaminiamo — sperando di non commettere indiscrezioni — lo studio ancora inedito e in corso di verifica eseguito da un gruppo di lavoro diretto da Carlo Monotti, nell'ambito della «Fondazione Agnelli». Più che uno studio, vuol essere il primo abbozzo di una «guida ai gruppi industriali in Italia», che sono qui distinti in tre categorie: a partecipazione statale, a capitale italiano, a prevalente partecipazione estera. Se scremiamo questa «guida», isolandone il vertice, dove siedono i gruppi con almeno 50 miliardi di fatturato annuo, troviamo che quelli controllati dallo Stato, che sono otto (Montedison compresa), hanno avuto nel 1972 un volume d'affari complessivo di oltre 9100 miliardi di lire, quelli privati a capitale italiano, che sono una quarantina, hanno fatturato per 8600 miliardi, quelli sotto controllo estero per 4300 miliardi. Con un'operazione che non vuol certo suggerire un'omogeneità di fattori, ma solo dar la misura di certe dimensioni, sommiamo gruppi pubblici e gruppi sotto controllo straniero: in totale, circa 13.500 miliardi di lire, contro gli 8600 dei gruppi privati italiani. Lo squilibrio sarebbe ancora maggiore, tra settore pubblico e settore privato italiano, se si togliessero da quest'ultimo alcuni gruppi che nello studio-guida vi sono inclusi solo perché non sono a partecipazione statale, ma che di «privato» hanno assai poco, come la Confederazione cooperativa (le cooperative «bianche», cattoliche), con 350 miliardi di fatturato, l'Aica-Coop (le cooperative «rosse», comuniste), con 250 miliardi di fatturato, e molti altri. Al di fuori di questi gruppi, statali o privati, italiani od esteri, non sono molte le aziende «indipendenti» che hanno un peso apprezzabile, prese singolarmente, nell'economia italiana. Una recentissima indagine, condotta con 10 scrupolo che la distingue dalla Saifi Finanziaria, ne identifica 570, con un fatturato minimo di 3 e massimo di 50 miliardi. Sfortunatamente, meno della metà di queste imprese, cioè 210. hanno risposto all'indagine in modo utile ed esauriente. Tuttavia 11 «campione» è abbastanza rappresentativo e la radiografia che esso ci dà si può applicare, con buona approssimazione, a tutte le 570 aziende, come abbiamo fatto all'inizio di questa nota, con la citazione delle 400 famiglie. Se ne ricava, tra l'altro, che appena il 3,33 per cento di queste imprese indipendenti ha un fatturato superiore ai 30 miliardi, e che il 79,5 per cento di esse non supera i 10 miliardi. Però, nel 1967, le imprese con oltre 30 miliardi erano appena lo 0,95 per cento, quelle sotto i 10 miliardi l'89,5. La graduale svalutazio¬ ne interna della lira altera un po' il confronto (i miliardi di og.?i non sono quelli di allora), tuttavia molte aziende hanno fatto il salto di categoria, a dimostrazione che la media impresa italiana è in buona parte viva e vitale. Mario Salvatorelli

Persone citate: Carlo Monotti, Saifi

Luoghi citati: Italia, Napoli, Roma