Prigionieri "alleati"

Prigionieri "alleati" NELL'ITALIA DEL '43 Prigionieri "alleati" Smart Hood, ufficiale di fanteria britannico, venne latto prigioniero in Nordctfrica: dopo l'8 settembre combattè con i partigiani in Toscana. Alle sue esperienze di guerra in Italia dedicò il libro Pcbblcs from my skull (« Ciottoli dal mio cranio », cioè /rammenti di memoria). Dopo aver diretto per dieci anni i servizi televisivi della libe, ora insegna al lìoyul College of Art. Non è cosa da poco venir fuori da un campo di prigionia c sentirsi abbandonati a se stessi in mezzo alla gente del Paese di cui si è stati prigionieri. Questo, il problema che ci trovammo ad affrontare, io e circa quattrocento ufficiali britannici, l'8 settembre, quando — convocati nel cortile della nostra prigione, l'orfanotrofio di Fontanellata di Parma — ci fu detto che il comando italiano ci liberava, per non farci cadere in mani tedesche. Noi, naturalmente, avevamo avuto solo qualche contatto con le guardie italiane che ci custodivano e con il personale dei nostri vari campi. I rapporti tra prigionieri e guardie non sono mai facili: c'erano stati momenti di tensione e di pericolo; e c'erano stati soprusi meschini da sopportare. Ma c'era stato anche il carabiniere che ci aveva detto a Chieti, nella primavera del 1943, dei grandi scioperi nel Nord Italia. E il soldato che, dopo la caduta di Mussolini, vedemmo entrare negli uffici del campo, tirar giù il ritratto del duce e farlo a pezzi. E i contadini e i civili, che avevamo incontrato nelle nostre fugaci passeggiate sotto sorveglianza, apparsi curiosi ma non ostili. E c'erano le ragazze che la domenica pedalavano su e giù di fronte al campo con le loro bici, fingendo ogni disinteresse per tutti noi. Ma cosa sarebbe accaduto se ci fossimo rifugiati negli Appennini, come avevamo intenzione di fare io e i miei compagni, e fossimo dovuti dipendere dagli abitanti di quei posti quanto a cibo e protezione? La domanda trovò subito una risposta. Avvicinandoci a una casa colonica, appena a Nord della via Emilia, chiedemmo aiuto: ci furono dati abiti borghesi, cibo e un giaciglio nella stalla. Ci fermammo 11 per alcuni giorni e aiutammo i contadini nel lavoro, prima di spingerci verso Sud. TI mio compagno gli lasciò l'orologio da polso ch'era stato di suo padre; quando vi ripassammo, nel 1945, glielo ridiedero tirandolo fuori da dietro una fotografia appesa alla parete. L'ospite successivo fu una guardia del nostro campo. «Per voi — disse — era il campo ti. 49, per noi era il campo n. 50». E fu sempre così: imparammo che potevamo avvicinare ogni casa colonica ed esservi accolti senza fastidi; vi avremmo trovato una parte del cibo che avevano, un angolo dove dormire, una scodella di latte con del pane il mattino successivo; noi avremmo ripagato con il nostro lavoro: raccogliere l'uva e le castagne, tagliare il granturco, dare una mano nell'aratura spianando il terreno con la zappa. C'erano altri stranieri che si nascondevano sugli Appennini. C'erano soldati sbandati che tentavano di raggiungere casa propria. C'erano prigionieri di guerra di varie nazionalità: russi, jugoslavi, greci. C'erano disertori tedeschi. C'erano i primi militanti delle formazioni partigiane, che prendevano la montagna per far nascere la Resistenza. E altri rifugiati: la famiglia d'un architetto ebreo in una casa colonica completamente appartata, un uomo politico socialista in un'altra. Tutti costoro dipendevano dalla protezione dei contadini e da quello straordinario sistema di comunicazione che riusciva a farci sapere quando c'era un pericolo e quando il pericolo era passato. Il paesaggio era come un formicaio che un qualche gigante avesse sconvolto. Sulle strette mulattiere, la gente passava salutando con un « buon giorno », e non chiedeva chi eri né dove andavi. Ma se ci si voltava a guardare, li si vedeva che s'erano fermati, a scrutare il forestiero. Una volta, venendo giù lungo la Valle del Sieve, che dovevo attraversare, incontrai una donna che mi disse: « C'è un traghetto, ma se siete uno di quelli, da qui non si passa ». Eravamo come pesci nell'acqua, muovendoci sicuri tra uomini e donne che erano cordiali, coraggiosi e pieni di risorse. Perché tutta questa gente dovesse essere così ospitale e benevola, è una domanda cui non è facile trovar risposta. In qualche caso, era il risultato d'un sentimento cristiano: dar da mangiare all'affamato, dar da vestire a chi è nudo. In al- tri veniva, in pari misura, da una profonda coscienza politica e dall'odio verso il fascismo. In altri ancora, era il prodotto d'un più spontaneo moto d'umanità: « Siamo tutti figli di mamma ». Nelle formazioni partigiane alle quali io mi unii, il cameratismo era fondato sulla comune volontà di lottare contro il fascismo, e il loro benvenuto diveniva più cordiale per chi dimostrava di saper usare un mitragliatore o lanciare una granata. Se gli si chiedeva perché lottavano, le risposte erano molto diverse. C'erano i comunisti, perfettamente organizzati e decisi, che avevano un preciso obiettivo politico. C'erano i monarchici, che volevano restaurare un regno più o meno democratico. C'erano uomini in fuga, che avevano le loro — mai molto chiare — ragioni per starsene alla macchia. C'erano i giovani fermamente intenzionati a non arruolarsi nell'esercito dei repubblichini: era la classe del '25. Tra gli uomini e le donne che ho conosciuto nelle forze partigiane in Toscana, c'erano alcuni dei più coraggiosi individui che io abbia mai incontrato. Quello che portò molti di loro alla Resistenza fu, naturalmente, la consapevolezza della necessità che un atto individuale e collettivo riaffermasse la dignità del popolo italiano e opponesse alla squallida storia del fascismo il segno del coraggio e del sacrificio. La Resistenza ebbe due sostegni. Il primo fu il Cln operante nelle città. Il Cln di Firenze ci faceva pervenire sulle montagne denaro, rifornimenti, aiuti e informazioni, e così faceva la classe lavoratrice di zone come Sesto Fiorentino, Campi, Empoli: che erano tutte, con evidenza, decisamente antifasciste. Il secondo fu l'appoggio dei contadini, che non era esplicitamente politico nel senso che fosse politicizzata la classe lavoratrice delle campagne fiorentine: l'opposizione dei contadini al fascismo aveva una spiegazione più complessa. In parte, essi erano contro l'autorità centrale più o meno per principio. Si risentirono per « l'ammasso », voluto da Mussolini come strumento per assicurarsi le provviste di grano necessarie. Volevano vendicare anche la perdita dei loro figli e dei loro mariti nelle avventure condotte in Spagna, Abissinia, Nordafrica, Grecia, Russia. Le donne poi erano amareggiate perché, spinte dalla Chiesa, avevano sacrificato le loro fedi nuziali allo sforzo bellico. Erano contro i « padroni » che, in molti casi, s'erano alleati al fascismo: nutrivano la ferma intenzione, una volta tornata la pace, di ottenere patti migliori, con una più equa divisione del raccolto. Chiunque era contro il fascismo appariva, ai loro occhi, contro « l'ammasso » e a favore d'una maggiore quota per i « mezzadri ». Ma erano piuttosto sospettosi della gente di città, e guardavano con diffidenza ai politici d'ogni schieramento. Prima di tutto, c'era il raccolto a cui pensare. Il fronte sarebbe passato sulle loro terre, e non potevano sfuggirlo: i prigionieri di guerra e i partigiani sarebbero tornati a casa, un giorno, ma essi erano i prigionieri della terra e del suo lavoro senza fine. Già i più giovani tra loro, giovanotti e ragazze, erano intenzionati a lasciare i campi, una volta venuta la pace, A vivere con loro e a prender parte ai cicli dell'anno e del loro lavoro, si scopriva un modo di vita che poco era cambiato dal Medio Évo. I pastori della Maremma, uomini ammantellati con cani feroci dai collari pungenti, a primavera spingevano le greggi sui pascoli montani. Il grano era portato al mulino per la macina. Le donne filavano la lana sulla « rocca », mentre badavano alle pecore tra le viti. Gli uomini si levavano all'alba per « governare le bestie », preparando il frumento per le grandi mucche color crema. A notte, si coricavano con i raggi del sole pensando a cosa avrebbe portato il futuro. Possedevano una qualità particolare di coraggio, che gli dava la forza di affrontare una vita dura e piena di stenti, dalla quale ricavavano le virtù della pazienza e della rassegnazione, ma che li rendeva — uomini e donne — vecchi anzitempo, gli portava la morte dei figli per mancanza di cure mediche, e spesso faceva dei giovani, ricchi d'indubbie doti morali e d'intelligenza, prigionieri — consapevoli — delle circostanze. Non era una vita per la quale si possa provare nostalgia o rimpianto, ora che è quasi scomparsa. Stuart Hood

Persone citate: Mussolini, Sieve, Smart Hood, Stuart Hood