All'Estrema di Luigi Salvatorelli

All'Estrema STORIA DEI RADICALI IN ITALIA All'Estrema Il libro di Alessandro Galante Garrone, I Radicali in Italia. 1849-1925 (Garzanti), è la trattazione organica di un soggetto vario e complesso. Occorre esser riconoscenti al Garrone per avere affrontato c svolto con dottrina e acume il non facile tema. Occorre tuttavia, perché si comprendano senza incertezze né equivoci soggetto, limiti, svolgimento organico della trattazione garroniana, qualche parola introduttiva, a cominciare dal titolo stesso generico di radicalismo, al di là del significato generalissimo del termine. Si può parlare di un radicalismo artistico, razionalistico, religioso, politico. I Radicali in Italia prendono, come è ovvio, il termine nell'ultimo senso. Con questo, però, rimaniamo ancora nel vago: radicali di quale periodo della storia italiana, di quale colore, programma, organizzazione? Soccorrono qui i termini cronologici indicati nel titolo: si tratta di quella formazione politica che si costituì come gruppo di Estrema Sinistra — accanto ai repubblicani e soprattutto ai socialisti — in seno alla grande Sinistra, quella costituente con l'avversaria Destra l'ossatura e la base parlamentare, la base parlamentare del neonato Stato italiano. Il gruppo sorse a poco a poco e divenne partito interamente autonomo: era già tale assai prima della fine del secolo. Con la data iniziale •< 1849 » nel titolo del libro si è compresa — e non poteva ..^sere altrimenti in una trattazione organica — quella che possiamo chiamare la preistoria del gruppo, che non fu né tanto breve, né troppo semplice. Durante codesta preistoria vi furono altre formazioni e manife stazioni politiche in Italia, i cui pure conviene la qualifica di « radicali », e potrebbe an che usarsi per loro i termini di economisti radicali, di operaisti, socialistoidi, e perfino di anarchicheggianti; ma il Garrone non ha creduto di trattar ne, e credo che la sua sia sta ta saggia limitazione, per la prevalenza assoluta in quelle formazioni del carattere econo mico-sociale su quello politico. Più semplice è la questio ne del termine finale del soggetto. Il Garrone l'ha posto allo stabilimento dell'assolutismo fascista, chiudendo con un breve cenno della coraggiosa Unione nazionale amendoliana del 1925. Avrebbe anche potuto ometterla, perché nel suo stesso titolo mostra di non restringersi al terreno radicale. Ha invece omesso completamente il Partito radicale, risorto con l'istituzione della Repubblica, ma non facente parte del cartello pluripartitico. E di questa omissione non posso biasimarlo, giacché nessun nesso, anche solo esteriore, lo collega alla storia del classico Partito radicale. Nella formazione del gruppo o partito radicale concorsero fenomeni di colorito politico, ma di nessuna formazione partitica: semplici tendenze, direi, perché dirle correnti sarebbe già esagerare la loro consistenza e arbitrariamente farne degli embrioni di partito. Sono sostanzialmente due: il garibaldinismo e il meridionalismo (inteso questo secondo come opposizione a una trascuranza sistematica, volontaria o no, dei legittimi interessi meridionali imputata ai governi). Quest'ultimo certamente fu elemento importante della nostra storia. Ma fu un fenomeno di carattere complesso, diffuso ben oltre i limiti del nostro partito, e ben oltre i limiti geografici del Mezzogiorno. Il Garrone non ha creduto trattarne, e noi non lo sostituiremo. ★ * Veniamo finalmente al punto capitale: la relazione del radicalismo col mazzinianesimo. Che alla formazione di elementi politico-partitici confluiti poi nel radicalismo il mazzinianesimo abbia dato un contributo essenziale è fuori dubbio; ma fu un contributo risoltosi negativamente, dopo una educazione iniziale: fu un allontanamento graduale, per cui Mazzini non fu più l'ispiratore e ancor meno l'organizzatore pratico. Allontanamento che preparò e sviluppò la nuova posizione partitica. Precedente di codesta crisi fu quella che apparve (ma al trar dei fatti non fu) la sconfitta totale della « rivoluzione europea », secondo che io ho chiamato — in un libro così intitolato — l'insieme dei moti rivoluzionari quarantotteschi. Quest'impressione di sconfitta totale in nessuno ci fu meno che in Mazzini, il quale, reagendo a suo modo all'insieme delle sconfitte singole effettive, costituì nel rinnovato esilio di Londra, nel luglio 1850, un « Comitato centrale europeo » (che cadde nel vuoto). Questo persistente « universalismo » rivoluzionario — fallimentare — deve essere stato un fattore negativo per il prestigio di Mazzini. Vero è che, prima ancora del Comitato europeo, Mazzini aveva organizzato a Roma una associazione italiana, che assunse anche uno sviluppo notevole. Ma al trar dei conti essa non fu redditizia: le due azioni maggiori da essa effettuate — il moto milanese del 6 febbraio '53 e la spedizione meridionale di Pisacane nel giugno '57 (congiunta questa col colpo di mano su un forte di Genova) — furono due completi, sanguinosi disastri. Questa ripetizione di azioni fallite, congiunta all'autoritarismo mazziniano fiducioso e imperioso — « novello papa » fu chiamato a un certo punto dal Sirtori — e il contrasto da una certa data con i successi sabaudi, produssero il suo isolamento, e una specie di scissura, che fu l'origine prima del radicalismo e del partito radicale. ★ ★ L'esposizione dell'inizio e sviluppo di questo radicalismo costituisce per l'appunto il soggetto del libro garroniano. Primeggiano come elementi dei fatti e del libro i rapporti dei radicali con la Sinistra propriamente detta, con i governi successivamente formati da essa e con i partiti più avanzati, ma pur sempre legalitari. Principale organizzatore e direttore fu Agostino Bertani, che aveva già primeggiato fra i mazziniani, dal suo centro di Genova (ove si era stabilito proveniendo dalla patria milanese). Adesso naturalmente la sua azione italiana, dentro e fuori Montecitorio, si allargò e intensificò Egli venne a costeggiare, su una linea più avanzata, la « Società nazionale » di Daniele Manin e Giorgio Pallavicini, organizzata da Giuseppe La Farina, divenuta strumento primario della politica cavouriana. Tipico per la sua azione politica il suo discorso a Rimini il 14 novembre 1875, che va considerato come una risposta a quello del Depretis a Stradala del 10 ottobre 1875, precedente quasi immediato della sua prima andata al potere. La risposta del Bertani fu fatta non a nome di un partito o gruppo particolare, ma di tutta la nazione. Il Garrone ne dà un largo sunto, che noi riducendone l'estensione, riproduciamo, considerandolo come un battesimo del radicalismo di Sinistra, o per essere più precisi di Estrema Sinistra. In essa il Bertani rievocò i postulati del primo Crispi: suffragio universale, Senato elettivo, istruzione primaria laica, obbligatoria e gratuita, decentramento amministrativo fino all'autonomia del Comune e della Provincia, riforma del sistema giudiziario, del pubblico ministero ecc. Questo programma è ritenuto nel discorso di Rimini quello tuttora valido — e diciamo obbligatorio — per tutta la Sinistra. Non però che egli ne chiedesse da parte di questa — e cioè del Depretis giunto sulla soglia del potere — l'attuazione completa e immediata. La sua idea era che nella Sinistra vi fossero una serie di « drappelli » — così egli li chiama — più o meno avanzati: i primi dovevano sospingere gli altri (si era dunque ancora lontani dal considerare l'Estrema Sinistra come un partito a sé). Il discorso di Stradella gli appariva — possiamo dire — come un mezzo fra i due gruppi; ma le sue preferenze andavano nettamente in favore dei più avanzati. Egli trovò che Depretis era stato troppo timido nei riguardi delle autonomie provinciali e comunali. Più ardite, e più esplicite, erano anche le sue idee riguardo alla questione sociale: nessun vantaggio avevano tratto finora dal regime nazionale le masse contadine. Occorrevano misure energiche: rivedere i patti agrari, dare pane e alloggio decente. Particolarmente duro fu per la questione ecclesiastica: i preti erano nemici irreconciliabili della nazione: andavano tolti loro il diritto di insegnare e lo stesso suffragio elettorale: estremismo, quest'ultimo, su cui in sèguito — salvo errore — il Bertani non insistè. Lo stesso può dirsi circa la riforma elettorale: dobbiamo, egli disse, mettere in armonia i plebisciti col suffragio elettorale. Preso questo postulato alla lettera, si andava al suffragio universale, non solo dei nullatenenti, ma degli analfabeti: idea, quest'ultima, lontanissima dal pensiero di Depretis, e che non ricompare più (per quel che mi consta) nelle manifestazioni politiche della Sinistra, Estrema o no. C'era dunque questo punto politico fisso: opposizione al governo di Destra. Ma c'era anche una adesione di massima al governo nuovo che si profilava all'orizzonte, attraverso la libera critica del discorso di Stradella. Adesione nell'insieme: con l'avvertenza che quel discorso non rappresentava un punto di arrivo. Ma — diceva il Bertani — la democrazia che vuole il più accetta anche provvisoriamente il meno, quando è buono. Un valido coadiutore — più avanzato e più duro di lui — era sorto intanto con qualche strepito nel giovane Felice Cavallotti, eletto deputato a Corteolona nel 1873, che si creò un organo giornalistico con La Regione di Milano. La sua attività si spiegò nel foro, nell'arringo pubblico, e alla Camera, con eloquenza avvocatesca (alla quale si accoppiava la famosa passione duellistica sfogata anche al di fuori della politica professionale). Nella politica parlamentaregovernativa c'era pieno accordo fra i due; e ambedue perciò furono avversari decisi del destreggiante trasformista Nicotera (che nel primo ministero Depretis ebbe il portafoglio dell'Interno). Si ebbe allora, nel giro di meno di un decennio, l'abolizione graduale della aborrita imposta del macinato, l'ampliamento grande del suffragio (1882) per cui da meno di mezzo milione di elettori si arrivò a più di due: accompagnato quest'ultimo dallo scrutinio di lista (che tuttavia fu abolito dopo dieci anni, nel 1892), il quale favorì le combinazioni elettorali dei partiti di Sinistra. E' singolare il fatto che gli anni seguiti immediatamente alla riforma elettorale fossero anche quelli in cui più si affermò il trasformismo, combattuto con particolare asprezza di linguaggio da Cavallotti (il quale giunse a parlare di « putredine »), che tuttavia si affermò come un processo naturale. Ma si ebbe anche un movimento internazionalistico piuttosto cospicuo, primo abbozzo del socialismo, che per ora si intitolava « partito operaio », e così continuò a chiamarsi fino al 1892. * * I rapporti col radicalismo, allora e dopo la costituzione del partito socialista, furono piuttosto complessi, di solidarietà generica per il mantenimento delle libertà pubbliche e per l'affermazione di quelle specifiche operaie, a cominciare dalla libertà di sciopero, che incominciò allora una vita stentata. I passaggi dal campo radicale al socialista — anche di elementi primari — svilupparono naturalmente una certa rivalità. Si ebbe adesso — se abbiamo ben compreso il Galante Garrone — pur senza una proclamazione ufficiale di fondazione, il pieno riconoscimento del Partito radicale. Rimase incerto — se abbiamo ben visto — ancora per qualche tempo se esso fosse dentro o fuori della Sinistra, ma prevalse a poco a poco la seconda veduta. I rapporti radico-socialisti si alterarono sotto il primo ministero Giolitti (1892-93). Fin da allora (e anche da prima) questi era indirizzato verso una politica di interesse sociale che in largo senso possiamo dire filosocialista, per la quale incontrò il consenso di taluni radicali. Non fu tra questi il Cavallotti, che lo combattè (perfino con un certo sprezzo), e che fu combattuto vittoriosamente nelle elezioni del novembre '92, ma poi rieletto. L'anno dopo Cavallotti, sotto il pretesto di inesistenti gravi responsabilità di Giolitti nella crisi della Banca Romana, premuroso di spegnere una sua possibile influenza disgregatrice sul partito radicale, lo attaccò furiosamente procurandone le dimissioni. Questa caduta di Giolitti ebbe per sbocco un ritorno al potere di Crispi, ben altrimenti responsabile nella faccenda bancaria, a cui Giolitti aveva provveduto con la soppressione della Banca Romana e la istituzione della Banca d'Italia. Si iniziò così la politica reazionaria di Crispi, diretta specialmente contro i socialisti, ma con carattere generale di reazione. Adesso Cavallotti divenne il più fiero avversario di Crispi (senza allearsi tuttavia con Giolitti), portando la lotta a fondo sul terreno morale; ma ci volle, purtroppo, la disfatta africana del 1° marzo 1896 per arrivare alla sua caduta. Prima ancora di questa c'era stata la piena rentrée del Giolitti nella vita politicoparlamentare, che lo portò a fianco di Zanardelli nella lotta contro la nuova reazione di Pelloux. Vennero adesso i rapporti che possiamo chiamare di amicizia fra l'Estrema e Giolitti, che ministro dell'Interno con Zanardelli applicò la politica filo-operaia, con la piena libertà legale del movimento operaio, e in particolare con la effettiva libertà di sciopero e di organizzazione. Successo a Zanardelli alla morte di questo — fine del 1903 — egli proseguì il suo progetto di portare alla piena collaborazione e al potere l'Estrema, ciò che gli riuscì quasi pienamente nel 1911, contemporaneamente all'introduzione del suffragio quasi universale. Da quel momento il partito radicale divenne elemento regolare e capitale della politica governativa. Dopo la crisi della guerra, tornato ancora una volta al potere nel 1920-21, l'ex neutralista Giolitti non riuscì a ristabilire la collaborazione con l'Estrema. Venne poi il fascismo ad abbattere l'uno e gli altri. Luigi Salvatorelli