Pittura dei segni e pittura "vera"

Pittura dei segni e pittura "vera" LE MOSTRE d'ARTE di Marziano Bernardi Pittura dei segni e pittura "vera" Saremmo soddisfatti se queste brevi note riuscissero talvolta per qualche lettore un pezzetto del filo d'Arianna nel labirinto delle «operazioni artistiche» contemporanee. Ma converrebbe cominciar dalla semantica che, come dice il vocabolario, è «ramo della linguistica che si occupa dei significati delle parole e dei mutamenti di essi»: ripetiamo la definizione perché moltissimi, ed anche critici che van per la maggiore, dicono e scrivono «semantica» per dritto o per rovescio, come viene. Dunque, parole: arte, pittura, quadro. Che mai significano? Benedetto Croce ci direbbe che significano ciò che tutti sanno; non occorre scervellarsi. Invece l'estetica attuale si scervella, fino a boccheggiare estenuata. Quel geniale mago della pubblicità ch'è Armando Testa proprio ieri ci manifestava la sua soddisfazione per quanto aveva visto, alla galleria «Christian Stein» (piazza S. Carlo 269), nella mostra del compianto Germano Olivotto, morto lo scorso febbraio a soli 39 anni. Olivotto colpi i visitatori della sezione «Opera o comportamento» della Biennale veneziana del '72 con le sue «sostituzioni»: particolarmente con la fotografia di un albero spoglio di foglie, un ramo del quale era «sostituito» da un sottilissimo tubo al neon illuminato. Un grosso mercante d'arte fiutò subito la novità, e la comprò. Poi, per Olivotto, si parlò di delicati interventi chirurgici sulla natura, come se alla natura (che gli ecologi dei parchi naturali vorrebbero salva da qualsiasi violenza dell'uomo) non bastassero gl'innesti fruttiferi, i concimi, i paletti di sostegno delle viti. «Ma è un'idea! — esclama Armando Testa — e vale di più di tutta la vacua, inutile, logora, decrepita pittura che adesso straripa dalle sale della Promotrice». Possiamo anche essere d'accordo. Però quest'idea è un'idea artistica o un'idea da elettricista? La domanda ne coinvolge altre. L'arte può confondersi con la tecnologia o con la merceologia? La macchina fotografica sostituire il pennello? Può il quadro esser freddamente giudicato un «oggetto»? Certo, nulla vieta di seguire questa strada; e allora — dalle ipotesi alle sperimentazioni, dai «gesti» provocatori alle «conflittualità» teoretiche — di giungere, sventolando la «idea», fino ai barattoli di Piero Manzoni. E qui si torna alla semantica: arte, pittura, quadro. E' possibile considerare «quadri» gli esercizi geometrici, le assonometrie sbilenche di Achille Perilli, che si vedono nella galleria «3 A» di via Accademia Albertina 3? Forse; benché un giorno, salvo errore, Perilli abbia dichiarato: «Io non credo che il quadro sia oggetto d'arte, credo che sia oggetto di ricerca»; così come al suo amico Gastone Novelli il quadro appariva non una pittura ma un problema linguistico da sciogliere con segni inventati. Eppure le opere di Perilli, stimatissimo dalla critica, son ricercate (lo si vede dalle vendite in questa mostra) dagli amatori d'arte. E' una prova che le suddette parole, sia presso i critici sia presso il pubblico e nel mercato artistico, hanno ormai significati contrastanti. Contrastanti, perché anche si chiamano quadri (e lo sono) quelli che il veneziano Romano Panneggiarli espone nelle sale «Davico» della Galleria Subalpina. Sono dipinti a tempera di fortissima suggestione perché costruiti con eccezionale abilità su un'intelaiatura classicistica ricca di evidenti «citazioni», dal Botticelli ai maestri veneti dell'Umanesimo, la quale si avvolge di un'atmosfera tra metafisica e surrealista che dà alle figure, alle architetture, alle scene composte con ammirevole equilibrio, il tono di mistero ch'è proprio della pittura di Fabrizio Clerici, visto di recente nella stessa galleria. Sono anche quadri le sconvolgenti immagini dello svedese Bengt Lindstròm, 49 anni, già aderente al gruppo «Cobra», e quindi caratterizzato dall'estrema aggressività d'un colore gettato violentemente a spessori ondosi sul supporto, quasi affidandogli il compito di modellare forme per lo più mostruose, orripilanti. Janus sul catalogo della mostra di Londstròm a «La Bussola» (via Po 9) ricorda che il pittore vide «dalle sponde del suo mare di ghiaccio il riverbero del furore che passò su tutto il continente», e che «le lacerazioni della storia» s'impressero nell'animo del giovane, vissuto anche nella Copenaghen occupata dai nazisti. Lindstròm è dunque un ennesimo testimone della nostra epoca sciagurata, e il suo furor pictorius è quindi in parte giustificato. A lui con fredda impassibilità si oppone il greco Pavlos (mostra a «Il Fauno», piazza Carignano 2) che vorremmo ctbedcpucxldnafuis chiamare un «Morandi di carta». I motivi morandiani — bottiglie, vasetti, tazze, frutti, ecc. — sono infatti tradotti dal Pavlos in sculture cartacee eseguite con incredibile perizia artigiana e chiuse, con uno splendido equilibrio di composizioni, in teche di plexiglas. Questi raffinatissimi lavori non sono più dei prodotti dell'arte «scimmia della natura», come dicevano gli antichi: sono finzioni d'una finzione, e perciò esempi di una oggettualità metafisica; in altre parole, oggetti morti, o meglio addormentati nel sonno d'un incantesimo. Ma non sono più né pittura né scultura; bensì un tentativo artistico di evadere dall'arte verso un'arte «altra». Come s'accennava al principio di questa nota, con la malinconia di chi vede tramontato un mondo che gli era caro. mar. ber.

Luoghi citati: Copenaghen