Parcheggio per esami di Felice Froio

Parcheggio per esami L'UNIVERSITÀ VISTA DAGLI STUDENTI Parcheggio per esami Se ne fanno più di un milione e mezzo; poi gli studenti sfollano: se appena la metà frequentasse le lezioni, sarebbe il caos - Le prospettive dei giovani laureati Roma, marzo. Se solo la metà degli studenti universitari frequentassero le lezioni sarebbe il caos. L'impalcatura dell'Università italiana regge ancora perché non più del venti, venticinque per cento degli iscritti sono presenti ogni giorno negli Atenei. E' come se Roma avesse venticinquemila studenti invece dei suoi centoventimila o Milano diciotto invece degli ottantamila. Quest'anno siamo arrivati oltre ottocentomila universitari, il doppio di dieci anni fa. La nostra Università non è in grado di offrire alla maggior parte degli studenti un posto nelle aule, nei laboratori, nelle biblioteche, ma assicura a tutti gli esami. Per almeno tre mesi l'anno gli Atenei si trasformano in macchine per esami; ne macinano più di un milione e messo, quasi tutti formalmente nulli perché non vengono fatti — come vuole la legge — da una commissione composta di tre docenti. « L'Università, italiana — afferma lo storico Giorgio Spini, presidente del Comitato nazionale universitario — è Università degli studi solo di nome; di fatto è solo Università degli esami. Per la maggior parte dei nostri studenti non c'è il diritto di studiare, c'è solo il diritto di pagare una tassa d'iscrizione e poi sostenere gli esami che magari si risolvono nella recitazione di un certo numero di libri e di dispense ». La selezione Il boom degli studenti ha avuto un andamento regolare ed era facilmente prevedibile. A determinarlo hanno influito soprattutto motivi di carattere socio-economico: il progressivo miglioramento delle condizioni economiche del Paese; la disoccupazione giovanile; il mito del titolo di studio — diploma o laurea che sia — concepito come unica strada per cambiare stato sociale. Questo non vuol dire che abbiamo una eccedenza di studenti agli istituti superiori, anzi siamo indietro rispetto ad altri Paesi: gli ultimi dati dicono che, su mille giovani che escono dalle medie, ne vanno alle scuole superiori 829 quattordicenni; poi la selezione fa scendere sensibilmente il numero e ne troviamo 667 di quindici anni, 531 di sedici anni e appena 416 di diciassette. L'aumento del livello d'istruzione poteva e doveva diventare fattore trainante per una radicale revisione del la- voro come accade in altre na-zioni; invece tutto è stato abbandonato al caso con l'inevitabile conseguenza di favorire la tradizionale mentalità italiana del pezzo di carta. A confondere ancor più le cose ha contribuito uno studio della Svimez (Società per lo sviluppo del Mezzogiorno) che nel 1963 faceva previsioni allarmanti: per il 1975 la scuola e l'Università italiana non sarebbero state in grado di fornire il numero di diplomati e laureati di cui il Paese avrebbe avuto bisogno; si doveva correre ai ripari per non compromettere lo sviluppo produttivo italiano, ricorrendo a strutture extrascolastiche. Un errore clamoroso. Sbagliava anche il ministero della Pubblica istruzione che per il 1973 prevedeva trecentomila studenti universitari. Così, nel giro di dieci anni l'Università italiana è diventata area di parcheggio dove i giovani sostano per rinviare di qualche anno la disoccupazione. Che ruolo ha lo studente in questa Università di massa e quali le sue prospettive dopo la laurea? Anna Lia Bonella, ventidue anni, laureanda in filosofia a Roma, delinea la figura dello studente d'oggi: « Non è più inquadrato in nessuno schema sociologico; non è più goliardo e non è più un privilegiato perché manca la certezza che sarà un futuro dirigente o un professionista. Nell'Università si muove male e impara poco; potrebbe apprendere nei seminari, ma quando si supera il numero non ti accettano. Cresce nello studente l'ostilità per questo tipo di Università: deriva dalla consapevolezza che stiamo perdendo tempo. «Resterebbe l'alternativa di diventare autodidatta, ma questo comporta una solida preparazione precedente e una disponibilità di tempo; c'è poi il rischio di cadere nel cerebralismo e di sottoporsi ad una fatica improba dettata dal desiderio di correre dietro a tutto, leggendo tanti libri per apprendere tante cose e, alla fine, senza riuscire a conquistarsi gli strumenti necessari per la futura professione ». Lo studente d'oggi vuole individuare il proprio ruolo dopo la laurea. E' questo il motivo, sostengono i sociologi, che ha trasformato lo studente universitario e che lo contrappone alla figura stereotipata dello studente della vecchia Università d'elite. Entra nell'Università in modo indifferente e acritico, consapevole che ha poche possibilità di servirsi della laurea, ma sa che comunque avrà vissuto una esperienza culturale. In questa situazione l'Università italiana dovrebbe essere una polveriera. « Il fenomeno non è esplosivo — afferma il sociologo Guido Martinotti della Statale di Milano — perché tanti studenti già lavorano o sono seminseriti in qualche attività oppure fruiscono del pre-salario. Si sta diffondendo anche in Italia il fenomeno del lavoro "periferico", tipico delle società industrialmente avanzate. Negli Stati Uniti metà dei lavoratori hanno un lavoro "periferico", cioè con posti a termine o con orario limitato o con lavoro di pochi giorni la settimana. In Italia questo fenomeno va sempre più allargandosi ed un caso tipico si è verificato proprio nell'Università: nel giro di pochi anni almeno quindicimila laureati con stipendi bassissimi o addirittura con somme irrisorie si sono inseriti nell'Università. Buona parte è costretta a qualche lavoro saltuario fuori. Queste persone noi le abbiamo chiamate precari ». Ma non è tutto. I sociologi danno un'altra spiegazione di questo comportamento rassegnato degli studenti che accettano passivamente la 1 prospettiva della disoccupa¬ zione e la disfunzione dell'Università: la contestazione del 1968 è passata rapidamente ed ha lasciato poco. Gli studenti del '68 — che provenivano quasi tutti dalla borghesia — avevano capito in fretta le cose, ma altrettanto in fretta le hanno bruciate. Poi sono arrivati gli studenti dei ceti con minor reddito, che non possono permettersi il lusso di far politica a pieno tempo. Anche dove ancora ci sono fermenti manca la capacità di portare avanti uno dei grossi temi del '68, cioè la contestazione ai contenuti culturali, la richiesta di una nuova didattica. Mezzo impiego « Lo studente — dice Giorgio Tecce, preside della facoltà di Scienze di Roma — è un ospite ingrato. L'Università è incapace di vederlo come un potenziale ricercatore, il futuro dirigente o professionista. E' assurdo che l'Università italiana, pur sapendo che la metà dei laureati vanno a finire nella scuola, continui a negare gli strumenti necessari per diventare insegnanti ». Il prof. Pietro Passerini, dell'Università di Firenze: « Se non saremo capaci di far studiare le persone in un modo più efficace e umano, di rendere lo studio un'attività desiderabile, anziché un penoso supplizio, l'Università sarà sempre più fabbrica di gente frustrata. Se continueremo a impartire nella scuola di massa la stessa pedagogia che prima era riservata alla vecchia élite, l'Università sarà madre di quel partito di laureati che prevedeva la scuola di Barbiana ». Allora che cosa vale oggi una laurea rilasciata da un Ateneo italiano? E' fuor di dubbio che ormai da qualche anno è in atto un processo di dequalificazione degli studi universitari. Non pochi escono impreparati alla futura professione. L'anno scorso il preside della facoltà di Medicina di Roma denunciò — proprio al nostro giornale — che circa il 25 per cento dei laureati non è in grado di esercitare la professione. Questa percentuale sale notevolmente in altre facoltà. La situazione è grave ma non siamo, come dicono tanti, allo sfacelo. Lo dimostrano alcuni dati: una percentuale — più alta di quanto si ritenga — di gio vani laureati ha le carte in regola per esercitare la professione, dedicarsi alla ricerca o alta carriera universitaria. All'Università di Bologna, ad esempio, un considerevole numero di giovani si laureano con 110 e lode: il 17,35% nel 1970, il 18% nel 1971, il 21% nel 1972. Se su scala nazionale questa percentuale dovesse scendere, rimane un 12-15 per cento di laureati che assicurano al Paese la futura classe dirigente, i ricercatori. Tuttavia non possiamo permetterci il lusso di proseguire per questa strada; s'impongono interventi urgenti se non si vuole la dequalificazione completa degli studi universitari. Purtroppo le prospettive per i giovani laureati sono allarmanti. Le cifre di un recente studio dicono che nel 1978, cioè fra appena quattro anni, avremo 683 mila laureati di cui solo 437 mila troveranno un posto. I disoccupati o i sottoccupati nel settore scientifico saranno 10 mila, in quello tecnico 16 mila, negli altri settori (umanistico, giuridico, economico) 218 mila. Migliaia di laureati sono destinati ad andare ad ingrossare la schiera dei venditori o di quanti occupano umili impieghi nell'attività terziaria. Felice Froio

Persone citate: Anna Lia Bonella, Giorgio Spini, Giorgio Tecce, Guido Martinotti, Pietro Passerini