Le patrie proibite

Le patrie proibite Le patrie proibite «Inglese?» «No, scozzese». Anche se l'abbiamo udita molte volte, la risposta ci lascia sempre un po' sconcertati; come se da noi qualcuno dicesse, « Italiano no: piemontese, lombardo, siciliano... ». Eppure, per uno scozzese, la risposta è del tutto naturale. La Scozia non è l'Inghilterra: sta scritto cosi anche sulla copertina del passaporto britannico. Più importante ancora: l'attaccamento alla propria regione, la coscienza delle proprie particolarità storiche e linguistiche, non incrinano la coesione nazionale né presagiscono oscure minacce all'integrità territoriale del Regno Unito. Le cose non vanno così in altre parti del mondo: senza cercar lontano, neppure in altri Paesi d'Europa. Quanto è successo ultimamente in Francia ne è una conferma. Lo abbiamo appreso l'altro giorno dai giornali: il governo francese ha messo fuori legge quattro associazioni regionaliste (due bretoni, una còrsa e una basca) accusate di metter in pericolo l'integrità nazionale. La notizia non giunge inattesa a chi conosce le vicende della Francia durante e dopo l'ultima guerra; ma non per questo è meno significativa. In quella mappa ideale d'Europa che ognuno di noi si porta appresso sin dai banchi di scuola, la Francia figura sempre come la nazione per eccellenza, protagonista orgogliosa da secoli delle tormentate vicende del nostro Continente. Quali obliati fantasmi si sono mai risvegliati, a turbare la cartesiana chiarezza dell'orizzonte francese, la geometrica perfezione di una struttura politica tetragona a tante tempeste? La domanda induce a riflettere non sul caso della Francia soltanto, ma su quello di tutte le nazioni europee. Il vero è che, a differenza di quanto si crede comunemente, le nazioni non sono, nella maggior parte dei casi, un fatto naturale, ma un artefatto, una costruzione dell'uomo. La storia di Francia ne offre una prova. Non ci sarebbe stato una Francia senza l'opera paziente, scaltra, tenace e spesso rapace, di una dinastia, intesa a comporre pezzo per pezzo il proprio dominio territoriale, e a creare, per prima in Europa, l'ossatura di uno Stato moderno. Ma neppure ci sarebbe stato una Francia, se l'unità non fosse stata consacrata, e per così dire trasfigurata, dalla Grande Rivoluzione come patria di uomini liberi, pronti a rinunciare alle loro differenze in vista di una missione comune. Il fatto naturale non è dunque la nazione: sono i ceppi, i nuclei sociali originari che hanno confluito, spontaneamente o meno, a costituirla. Per designare questi nuclei è di moda oggi una parola nuova, etnìe; e di « risveglio delle etnie » si parla appunto per descrivere ciò che certo non succede soltanto in questo momento e in Francia, ma che più colpisce proprio in questo Paese, che da maggior tempo vive di una vita statale unitaria, e che con maggior intensità ha perseguito una politica di unificazione e di accentramento amministrativo, linguistico e culturale. ★ * Quei bretoni o quegli occitani che rivendicano il diritto di parlare e di veder insegnata la loro lingua, già cosi fiorente in passato; quei baschi o quei còrsi che reclamano una parziale o totale indipendenza da Parigi, non fanno altro in realtà che rifarsi ai dati effettivi della loro storia nell'intento di ricuperare, prima che sia troppo tardi, quelle caratteristiche loro proprie, la cui privazione costituisce ai loro occhi un impoverimento, se non una degradazione. C'è indubbiamente un motivo romantico e nostalgico in tutte queste aspirazioni verso un ritorno all'antico, e non stupisce che per molto tempo tali aspirazioni si siano annidate soprattutto fra i ceti più conservatori, fra le « destre » di stampo tradizionalista, irriducibilmente avverse a quello spirito giacobino, laicista e ugualitario, che impronta di sé tanta parte della vita politica francese. Il fatto singolare però (come giustamente sottolinea Sergio Salvi nell'Introduzione al suo recente volume, Le nazioni proibite, dove il lettore potrà trovare tutte quelle ulteriori informazioni che è impossibile condensare in un breve articolo) è che i movimenti autonomisti e independentisti francesi, e non questi soltanto, sono ora quasi tutti schierati su posizioni socialiste o addirittura marxiste o leniniste. Mediante una trasposizione ad un tempo ideologica e terminologica, si parla adesso di «colonialismo», di sfruttamento da parte del¬ l'etnìa « egemone », di « proletarizzazione » e di « alienazione » di quelle minoritarie. Seguendo in parte l'esempio dell'Italia, la Francia sta ora facendo l'esperimento delle autonomie regionali, e tale esperimento, se non sarà contenuto entro limiti troppo angusti, dovrebbe valere, come ha valso da noi, a sopire le velleità separatistiche e ad appagare l'attaccamento ad antiche tradizioni tutt'ora vive nella lingua e nel costume. Sembra però che l'esperimento francese sia ispirato ad esigenze economiche più che a considerazioni storiche e culturali. E' naturale quindi che già si levino voci intese a denunciare, oltre alla timidità della riforma ed all'artificiosità di certi raggruppamenti, il pericolo di nuovi sfruttamenti non meno funesti per esser compiuti su una scala minore. E' quel che si può constatare, per restar vicino a casa nostra, nel caso della Savoia, i cui due dipartimenti sono stati riuniti a Lione costituendo la regione Rodano-Alpi, e dove già si è formato un vivace movimento autonomista che si oppone alla strategia del governo centrale e rivendica il diritto della Savoia ad esser riconosciuta come regione autonoma per entro ai suoi storici confini. ★ * D'altro canto è da aspettarsi che il movimento regionalista, dopotutto, soltanto agli inizi nella vicina repubblica, incontrerà opposizioni ancor più forti che da noi da parte dei sostenitori dell'intangibile sovranità nazionale. Ne sono prova le dichiarazioni fatte alla radio da Alexandre Sanguinetti, segretario generale dell'U.D.R., subilo dopo l'annuncio delle misure repressive contro gli autonomisti baschi, bretoni e còrsi. Coloro i quali osano contestare l'unità nazionale, reazionari o gauchistes che siano, disse Sanguinetti, ignorano la storia e invano invocano il nome d'Europa, la cui unità non può esser raggiunta mediante le regioni, ma solo con l'associazione, liberamente consentita, di nazioni sovrane. E' l'idea gollista dell'Europa « delle patrie », contrapposta a quella « delle etnie », di un'Europa cioè rispettosa all'estremo di quelle multiformi particolarità che ne costituiscono l'ordito, ed anche, per molti, l'incomparabile fascino. Siamo nel campo dell'opinabile; ma forse non è inutile che l'idea d'Europa abbia fatto capolino in questo contesto. Perché verrebbe latto di chiedere agli ostinati nemici del regionalismo come immaginano si possa salvare, in un'Europa unita, il rispetto delle patrie nazionali, se non costruendo un sistema flessibile, in cui l'unità non escluda la particolarità. Allo stesso modo come un cittadino britannico può dire oggi « sono scozzese » senza venir meno alla sua lealtà nazionale, non sarebbe auspicabile che un cittadino d'Europa possa dire un giorno « sono italiano, francese, tedesco... » senza cessare di esser un buon europeo? La piccola patria fa meglio amare la grande: era il motto degli autonomisti valdostani prima che un'insensata politica livellatrice inducesse alcuni di essi all'aperta secessione. Potrebbe anche esser il motto di tutti coloro i quali, proprio in nome di un'Europa come communis patria, non ritengono si debba perciò rinnegare le patrie singole, a patto che queste a loro volta non osteggino né opprimano quelle che, nel loro seno, sono state troppo a lungo dimenticate. A. Passerin d'Entrèves

Persone citate: Alexandre Sanguinetti, Passerin, Sanguinetti, Sergio Salvi