Veneto nero di Gigi Ghirotti

Veneto nero IL DEMONE DEL TERRORISMO Veneto nero Due anni fa, quando il giudice Stiz di Treviso, che aveva messo le mani sul timer di piazza Fontana, cercò d'accreditare l'avvocatino nazista di Padova e il suo amico, l'editore fascista di Castelfranco, come possibili ideatori della strage, s'urtò a un diffuso moto d'incredulità. Soprattutto, io credo, d'incredulità storicamente motivata: pareva impossibile che dal Veneto potesse essere partita la miccia maledetta. D'altro canto, a Roma si stava preparando il processo a Pietro Valpreda; quello si, storicamente, aveva le carte in regola. Da quanti mai anni e decenni non si vedeva più un anarchico nei gabbioni delle nostre corti d'assise? Comprensibile, quindi, che la giustizia si preparasse con scrupolo, e quasi con gioiosa impazienza, a quest'appuntamento con il Contestatore di sempre. L'episodio Freda-Ventura fu interpretato come un diversivo, quasi una macchinazione nella macchinazione. Il Ventura, spedito a Roma per essere inter rogato, se ne tornò nel Veneto con una patente d'assoluta onestà ed estraneità ai fatti: farina da far ostie. E' interessante osservare come, strada facendo, i segni siano cambiati e le piste ch'erano rosse siano diventate nere e abbiano preso a marciare quasi tutte in direzione del Veneto: della regione, cioè, più « bianca » d'Italia, la più alie na dai colpi di testa, tempio e modello di moderazione politica. Se le emergenze istruttorie non ingannano, non si tratterebbe neppure di episodi isolati. Intorno, infatti, ai due protagonisti, si scopre un girotondo di complicità: un commissario che dimentica le prove nei cassetti, un professore d'Università che tace, un giovane magistrato che consente, e il magistrato suo padre che quando riceve in casa la visita d'un investigatore, speditogli dal collega Stiz di Treviso, si affretta a denunciare Stiz e l'investigatore per violazione di domicilio. Ma non è tutto: quando si fruga nelle tasche dell'editore Feltrinelli, ucciso sotto il traliccio di Segrate, si scopre che la carta d'identità, falsificata, proviene da un furto consumato nel municipio di Preganziol, pochi chilometri da Treviso, ad opera di giovanotti dell'estrema destra su cui si distende la protezione d'un patrizio veneziano, che tira anche lui da quella parte. Un dinamitardo micidiale, il Bertoli (bomba alla questura di Milano), viene da Israele, ma ha fatto le prime armi a Venezia. Infine, ecco sbocciare, nel giardino di tutte le virtù, la « Rosa dei venti », i cui petali si sfogliano tra cime e fiumi grondanti gloria e memorie, all'ombra di caserme e di campanili, nel pio poligono tra Verona, Padova, Belluno e Bassano del Grappa. Si indaga su un colonnello in servizio, un generale a riposo, un libraio conosciuto in questura come rapinatore, un ex brigatista nero condannato per omicidio, un falso giudice militare, forse anche un prete; e, poiché in questo caso la miccia passa sotto le poltrone d'un club di benpensanti raccolti all'insegna della «maggioranza silenziosa», non sarebbe da stupire se nel carrozzone finissero altri dignitari della patriottica borghesia locale. Già due ex parlamentari de sono apparsi, sebbene di sfuggita, sullo sfondo. Che cosa conviene concludere? Che bisogna aspettare la fine delle istruttorie, è ovvio. Ma, al di là delle responsabilità penali e prima che questo fiume limaccioso sia giunto alla foce, è pur da considerare che cosa sia rimasto del vecchio Veneto, cui la storia e la leggenda attribuirono il ruolo di moderatore paziente e bonario nei momenti di febbre montante. Fu Alcide De Gasperi, nell'immediato dopoguerra, che scoprì i valori riposti, o derisi, di questa nobile regione, anzi di quest'ex nazione. Si trattava di dar vita alle prime amministrazioni comunali, dopo il coma elettorale durato vent'anni. I socialisti proponevano che ad andare per prima alle urne fosse la Lombardia, i comunisti insistevano per l'Emilia, i liberali per qualsiasi regione purché meridionale. De Gasperi s'impuntò perché fosse il Veneto a sperimentare per primo il suffragio universale maschile e femminile. Ebbe partita vinta, e il risultato fu che da quelle urne amministrative usci un Veneto talmente bianco da riverberare bianchezza su tutte le altre regioni, via via che si avvicen darono ai seggi, e da ripercuotersi poi anche in sede politica, per effetto indotto, di consultazione in consultazione per molti anni. Sicché se l'Italia è andata dov'è andata, la responsabilità spetta in buona parte al Veneto. L'operazione ideata da De Gasperi ebbe altri risultati. Propose il Veneto all'attenzione degl'italiani, facendone quasi la regione-guida d'un metodo civile e morale, capace di contrapporsi validamente ad altri metodi e modelli correnti in quel tempo per il mondo. Questo fatto lo risarcì degli amari disinganni ch'esso aveva patito dopo il 1866: sbolliti gli entusiasmi per il plebiscito, i veneti s'eran dati a invocare l'Italia affinché concedes se loro di tenersi i vecchi ordinamenti. Così il Veneto fu definito « la sacrestia d'Italia », e la risposta fu una dura e tenace « opposizione cattolica » che si prolungò fino ai primi decenni del nostro secolo ed oltre. Fu per opera di De Gasperi che le posizioni vennero rovesciate, e il Veneto passò dall'opposizione al consenso. Un consenso cordiale e proficuo. Cordiale, perché la nuova filosofia dello sviluppo non contraddiceva la vecchia: il parón, figura centrale del piccolo mondo agricolo che aveva le sue frontiere nel poderino, il suo fortilizio nella casetta e il suo baluardo nel campanile, rimase sovrano assoluto. Ma il paronzìn suo figlio, con i danari del « Piano verde », comperò invece d'una vacca un tornio, e lo impiantò sotto casa. Fu l'inizio d'una metalmeccanica ruspante, che cambiò dall'interno l'azienda contadina e pian piano anche la famiglia, i costumi, i paesi. Diceva qualche anno fa una vecchia contadina del Piave ad Andrea Zanzotto che la intervistava: «Che bel che l'è lui, adès! O' fin l'aqua e la televisioni Veca eser veci, adès che se à luti i so' dret! ». Peccato esser vecchi, adesso che ciascuno ha i suoi « dret », cioè i conforti dell'acqua e della televisione ed anche, semplicemente, i «dret», i diritti: i famosi, immortali diritti degli uomini, finalmente sbarcati sulle sacre sponde. Ma è proprio la crescita dei diritti popolari che, all'apparire dei primi moti della contestazione operaia e giovanile, fa scattare i congegni dell'autodi fesa spontanea, in una società che ha mantenuto un solido impianto oligarchico e conservatore. La statua del fondatore dell'industria laniera dei Marzotto, a Valdagno, viene abbattuta nella primavera del 1968, più d'un anno in anticipo sull'« autunno caldo ». Poco dopo, sbarcano a Venezia stormi di giovani barricadieri, reduci dal « maggio francese ». a dar mano agli artisti che contestano la Biennale. E' l'anno dell'Università occupata e dei sociologi della facoltà di Tren to che contestano, in duomo, persino il frate quaresimalista. Il principio d'autorità va a rotoli, e il pio Veneto, probo, prudente e ossequiente, si scopre ch'è finito: è diventato una regione come le altre, gli stessi contrasti, le stesse debolezze, gli stessi rancori e le stesse paure. Di diverso, non c'è che la fama: quel buon profumo di virtù, quei modi garbati, quei toni da commedia goldoniana che incantano e illudono. Appartiene alle te cniche criminali più antiche la scelta d'una base operativa che non dia sospetti, al doppio line di sviare le ricerche e indirizzarle, se possibile, sul nemico. Una considerazione ci viene suggerita dal latinetto ginnasiale: anguis latet in berbis, il serpente ama nascondersi in mezzo all'erba. E quale più segreto nascondiglio poteva trovare, in questi anni, il demone del terrorismo meglio che negli opimi pascoli del buon Dio? Gigi Ghirotti

Persone citate: Alcide De Gasperi, Andrea Zanzotto, Bertoli, Cordiale, De Gasperi, Freda, Pietro Valpreda, Veca