La "giraffa,, dell'industria di Mario Salvatorelli

La "giraffa,, dell'industria Organigramma del potere economico in Italia La "giraffa,, dell'industria Così è stata definita la piccola e media impresa: il settore conta 72.500 unità, con tre milioni di occupati, il 60% degli addetti all'industria - E' uno degli squilibri del nostro Paese, al 7° posto nel mondo per il commercio estero, al 10° come prodotto nazionale, ma solo al 25" come tenore di vita - Siamo il popolo più scontento d'Europa (Dal nostro inviato speciale) Roma, 12 marzo. Sd racconta che un presidente del Consiglio italiano, incontrando per la prima volta un grosso imprenditore del Nord, tenne ad informarlo che anch'egli proveniva da una famiglia d'industriali: fabbricavano, precisò, «santini», immagini di santi. Questo concetto di «industria» può apparire personale, ma non è poi tanto lontano dalla realtà italiana. Il nostro è un Paese dove si sente dire che cinque gruppi possono da soli «guidare» l'economia, quindi una programmazione «di vertice» sarebbe molto più efficace di ogni piano a livello nazionale, puntualmente smentito dai fatti; che ogni discussione sulle restrizioni o le non restrizioni al credito è teorica, quando il 40 per cento degli investimenti viene effettuato da quei soli cinque gruppi, che sono Iri, Eni, Enel, Montedison, Fiat. Può anche essere vero, ci torneremo sopra. Ma l'Italia è anche il Paese dove le piccole imprese — da 11 a 500 addetti — sono il 98,7 per cento delle aziende industriali, il loro numero e la loro quota di occupati sono in costante aumento. Erano 48 mila nel 1961, sono risultate 72.500 al censimento del 1971; prima avevano poco più di 2 milioni di dipendenti, il 40 per cento degli addetti all'industria vera e propria, dieci anni dopo ne avevano 3 milioni, il 60 per cento. Anche le medie e grandi imprese, con oltre 500 dipendenti, sono aumentate, ma assai meno, e poche erano, poche sono rimaste: da 750 nel 1961 a 945 nel 1971, e mentre prima occupavano quasi 1 milione e mezzo di persone, dopo i loro addetti erano scesi a 1 milione 266 mila. Il numero degli occupati non basta a dare le dimensioni reali di un'impresa. Delle «piccole», infatti, una quarantina figura tra le 350 maggiori società italiane analizzate da «Mediobanca», quelle che nel 1972 hanno fatturato per oltre dieci miliardi di lire, le dimensioni ritenute sufficienti, nel luglio scorso, per essere considerate aziende pilota nel rispettivo campo di attività e per far scattare il blocco del listino dei prezzi. Forse gli «industriali» che fabbricano santini non figurano tra le 72.500 piccole aziende, rientrano tra quelle artigiane, con al massimo dieci addetti. Ma anche queste, tutte insieme, danno lavoro nel solo settore industriale ad oltre 3 milioni di persone, più del doppio delle grandi aziende. Non è facile definire la piccola industria. E' stato detto a un convegno della Fondazione Agnelli che è come la giraffa: diffìcile da descrivere a chi non l'ha mai vista, ma, una volta conosciuta, si capisce subito com'è fatta. In ogni caso è certo che di queste «giraffe» è piena l'Italia, costituiscono la base di quella deforme piramide che è la nostra industria: una base, appunto, vastissima, un corpo — le medie imprese — corto e rattrappito, un vertice aguzzo, la cui altezza è difficile da valutare ma è composto da un numero di «gruppi» che si contano sulle dita. E' uno dei tanti squilibri di questo Paese, che come commercio con l'estero è al settimo posto nel mondo, come prodotto nazionale al decimo e come popolazione all'undicesimo, ma come tenore di vita è solo venticinquesimo, e anche questo a prezzo di differenze paurose tra settore e settore di attività, tra paghe e paghe — «la giungla delle retribuzioni» — tra regione e regione e tra provincia e provincia della stessa regione. Milano e Torino, in una «classifica del benessere» di 122 Paesi del mondo, sarebbero al quattordicesimo posto, Agrigento e Avellino al quarantatreesimo, dopo molti Paesi che figurano tra i sottosviluppati, o meglio, come oggi si preferisce dire, per non offendere nessuno, «emergenti». Ma non solo per il reddito siamo con una parte del corpo tra i Paesi sviluppati, con una parte tra gli altri. C'è lo squilibrio, per esempio, tra occupazione maschile, e occupazione femminile. Per la prima — sia pure a prezzo, anche qui, di differenze regionali e di emigrazioni interne di dimensioni bibliche — siamo su livelli europei: 1*80,8 per cento degli uomini tra i 14 e i 64 anni fanno parte della popolazione attiva, più che in Belgio — 79,2 per cento — e poco meno che in Francia e in Germania, dove sono intorno all'82 per cento. Ma delle donne in età lavorativa, tra i 14 e i 59 anni, in Italia solo il 29.4 per cento hanno un'occupazione retribuita, contro il 41.5 in Germania e il 47 per cento in Francia, dove tra l'altro i bilanci familiari sono più floridi. Se poi si escludesse l'agricoltura, che in Italia assorbe ancora un quinto delle donne «occupate», contro un decimo nei due Paesi presi a confronto, la nostra occupazione femminile crollerebbe a livelli turchi. Mario Deaglio ci diceva che è necessario distinguere almeno quattro Italie, e non per pignoleria, al contrario per semplificare le cose. C'è un'Italia nord-occidentale che è a livello europeo, con un modello di sviluppo molto simile al Belgio attuale. C'è un'Italia nord-orientale, dal Veneto alla Toscana, che non è paragonabile ad alcun Paese, dove stanno nascendo tante «Burano», tanti paesi specializzati in questa o quella produzione, dove le fabbriche diventano solo il luogo di «assemblaggio» delle parti costituenti il prodotto finito. C'è l'Italia «romana», che ha saltato la fase dell'industrializzazione ed è già oltre il terziario, al quaternario, con il 61 per cento degli occupati che lavorano fuori dall'agricoltura e dall'industria (e il presidente dellTstat, Giuseppe De Meo, c'informa che in vent'anni gli addetti alla pubblica amministrazione sono aumentati del 54 per cento, da 1 milione 168 mila a 1 milione 805 mila, (senza — aggiungeremmo noi — vantaggi evidenti per la collettività). Infine, c'è l'Italia meridionale che coincide con il modello di sviluppo della Grecia attuale (economico, beninteso, non politico), quello medio italiano di vent'anni fa. Gli squilibri settoriali, grosso modo, sono noti. L'agricoltura occupa circa 3 milioni 300 mila persone, l'industria sugli 8 milioni, le altre attività (i servizi) sui 7 milioni. E' questo il primo, più rozzo, organigramma dell'economia italiana. Ma se dividiamo il prodotto di ciascun settore per il numero degli addetti, troviamo che un occupato in agricoltura «vale» 1 milione 750 mila lire, un occupato nell'industria quasi il doppio, sui 3 milioni, e ogni occupato nei servizi quasi di triplo, oltre 4 milioni e mezzo. C'è solo una cosa che ci unisce, l'insoddisfazione. Secondo una recente inchiesta, la prima della Comunità dei nove Paesi, solo il 5 per cento degli italiano sono «molto soddisfatti» del rispettivo reddito e il 38 per cento «piuttosto soddisfatti»: in totale, il 43 per cento, contro il 52 dei francesi, il 57 degli inglesi e dei lussemburghesi, il 61 degli irlandesi (anche loro sono più contenti di noi), il 75 per cento dei belgi, il 79 degli olandesi e addirittura l'80 per cento — quattro su cinque — dei danesi. Siamo, insomma, il popolo più scontento d'Europa: tutto sommato, non a torto. Mario Salvatorelli

Persone citate: Giuseppe De Meo, Mario Deaglio