Ultimo dei Negus di Sandro Viola

Ultimo dei Negus CHE C'È DIETRO IL "MEZZO COLPO DI STATO,, IN ETIOPIA Ultimo dei Negus Il potere d'origine divina che discende dalle nozze di Salomone con la regina di Saba esce probabilmente dalla storia - Il premier responsabile davanti al Parlamento (Dal nostro inviato speciale) Addis Abeba, marzo. La scena era regolata da una regia scrupolosa, pervasa da quel feticismo del cerimoniale che marca da sempre le abitudini di Hailé Selassié. L'imperatore sedeva a uno scrittoio borchiato sul cui piano spiccavano due leoni d'oro, vestito di scuro, il colletto alto e strettissimo come quelli di Anthony Eden. Parlò a voce bassa, esitante (la voce d'un altro ottuagenario, Francisco Franco), per circa cinque minuti. E veniva spontaneo — per la gravità del momento — pensare a un altro discorso di Hailé Selassié, quello del 28 giugno '36 alla Società delle Nazioni, quando il sovrano spodestato rimproverò al consesso internazionale di aver permesso l'aggressione fascista all'Etiopia. Erano le otto di sera di martedì 5 marzo, e la monarchia assoluta degli imperatori Shewa, il potere d'origine divina che discende dalle nozze di Salomone con la regina di Saba, uscivano per sempre dalla storia sotto la spinta d'un pronunciamento militare. Con le ultime parole del breve discorso, Hailé Selassié aveva annunciato una revisione costituzionale che avrebbe reso il primo ministro responsabile non più dinanzi al sovrano, ma al Parlamento. Finiva così non solo l'Etiopia feudale di Giovanni IV e dì Menelik II, ma anche l'Etiopia per così dire moderna, nella cui Costituzione, all'articolo 4, è scritto: « In virtù del suo sangue imperiale e dell'unzione che essa ha ricevuto, la persona dell'imperatore è sacra, la sua dignità inviolabile e il suo potere indiscutibile... ». Vuoto di potere Quella sera, ad Addis Abeba invece d'un potere «indiscutibile » c'era un vuoto di potere. In una settimana, tutto quel che Hailé Selassié ha costruito nella sua lunga vita (con gli intrighi degli Anni Dieci, la lucida spietatezza della reggenza, il coraggio nella guerra contro gli italiani, il ritorno trionfale, l'abilità della politica estera di questi trent'anni, la repressione d'ogni dissidenza interna) si era frantumato. Il suo governo, un governo incompleto e in preda all'affanno, non riusciva a controllare il moto sociale, uno dei più larghi che l'Africa «nuova» abbia mai conosciuto, la contestazione studentesca, lo sciopero dei lavoratori, il fermento delle bidonvilles. Né era possibile stavolta ricorrere alla maniera forte, e cioè alla truppa. Le forze armate stavano in disparte, decise a mantenere le distanze dal palazzo e dal gruppo di aristocratici « riformisti » che il palazzo aveva chiamato in soccorso. I militari avevano infatti dato al governo, come sì sarebbe appreso dopo, sei mesi di tempo per raddrizzare la situazione; sei mesi al termine dei quali, se la crisi economica e sociale non sarà stata risolta, l'esercito dovrebbe completare il « mezzo golpe » di febbraio prendendo il potere. Molti punti, nella rapida sequenza di avvenimenti che hanno segnato la fine dell'autocrazia etiopica, restano tuttora oscuri. A Mogadiscio, la capitale africana più «sensibile » alle informazioni provenienti dall'Etiopia (la Somalia rivendica una parte della provincia dell'Ogaden, dove la Texaco avrebbe scoperto recentemente petrolio e gas naturale), nessuno ha capito cosa sia accaduto esattamente ad Addis Abeba. Lo stesso si può dire per il Fronte di liberazione eritreo, che conducendo da tredici anni la guerriglia contro l'esercito etiopico dovrebbe avere idee piuttosto precise sugli umori e gli orientamenti degli ufficiali di Hailé Selassié. Incapace lì per lì di dare un'interpretazione al pronunciamento, il Fronte aveva sospeso per una settimana le operazioni; le ha riprese più tardi quando ha capito che il « mezzo golpe » non aveva vero carattere rivoluzionario, e che non c'era da attendersi che esso si volgesse a suo favore. Ma quella sera, mentre il Negus concludeva il breve appello al Paese (rigido dietro la scrivania, le mani minute attorno al foglio del discorso, i capelli pettinati a raggiera), il problema politico che s'era aperto col prò- nunciamento di Asmara, il profilarsi cioè d'un altro regime militare in Africa, sembrò per un lungo momento come sfocato rispetto alla vicenda del vecchio autocrate e al suo declino. Una patetica solennità, un forte interesse storico e umano contornavano l'immagine del vecchissimo aristocratico amarha che in cinque minuti, dopo mezzo secolo, stava cedendo il suo « potere indiscutibile ». L'uomo non s'era certo scomposto. Nel marasma di quei giorni badava ancora, anzi, alla sua leggenda, o almeno a quell'aspetto di impassibilità, di regale distacco che è uno dei cardini della sua leggenda. Andava a pregare nella cattedrale, compariva dì colpo al mercato (disteso sui cuscini dell'automobile, in braccio uno dei suoi piccoli cani) dove distribuiva qualche manciata di banconote, riceveva in tight, l'aria annoiata, ambasciatori africani che gli presentavano le credenziali vestiti del costume nazionale. La regalità non serviva, tuttavia, a dissimulare la caduta politica. Mercoledì 6, nel tentativo di fermare lo sciopero generale, chiese di vedere i capi dei sindacati a palazzo; ma questi (membri dell'African-American Labour, e assistiti da consiglieri americani) rifiutarono. L'interlocutore, ormai, non era più lui. Difficile ascesa Questi elementi « melo » sovrastavano, lo abbiamo detto, l'evento politico vero e proprio. La memoria rivangava la straordinaria avventura della giovinezza dell'imperatore, del fragile (ma abile, spregiudicato) Taf ari degli anni dopo la morte di Menelik. La lotta sorda con la vecchia Taitù, la lenta, implacabile eliminazione dei pretendenti, la reggenza, infine la coronation del '30, il suo arrivo alla cattedrale nella carrozza (fatta comprare in fretta e furia) del Kaiser Guglielmo. Cinquantasei anni di potere, tra reggenza e regno, si concludevano in poche giornate confuse. E molto probabilmente si concludeva la vicenda dei Negus abissini. La legge della successione con cui Hailé Selassié aveva pensato di evitare al Paese i tremendi sussulti che esso ha sempre conosciuto alla morte dei suoi re, non è oggi che un pezzo dì carta. Essa indica come primo successore il principe ereditario Asfa Wossen, che sta in una clinica svizzera ottuso da un'emorragia cerebrale; in seconda linea un ragazzo di diciassette anni, poi un paio di playboys. Tutta gente che gli sharnbel e gli shaleka (ì capitani, i maggiori) del pronunciamento, si rifiuteranno dì accettare. Sandro Viola Roma, 1970. L'imperatore Hailé Selassié in visita ufficiale (Feto Team)

Persone citate: Anthony Eden, Asfa, Francisco Franco, Giovanni Iv, Kaiser Guglielmo, Negus