Il silenzio di Ammiano

Il silenzio di Ammiano Il silenzio di Ammiano Ammiano Marcellino: « Le Storie », a cura di A. Selem. Ed. Utet, lire 12.000. Continuare le Historiae di Tacito. Era questa l'ambizione di Ammiano Marcellino, un greco d'Antiochia che raggiunse gradi elevati nell'esercito imperiale in Oriente, nelle Gallic e sul fronte persiano. Qui, nel 363, partecipò alla spedizione nella quale Giuliano l'Apostata perse la vita. Il suo proposito d'essere storico di Roma sta a dimostrare la sua appartenenza spirituale all'impero e indica quali fossero i lettori di cui egli sollecitava i consensi: quegli illustres dell'Urbe, conservatori pagani di classe senatoria, dei quali riconosceva il prestigio, pur dubitando che ne fossero ancora degni. Il fatto che abbia scritto in latino indica la diffusione di questa lingua negli ambienti nei quali il greco ormai scompariva; nonché l'importanza acquistata dalla cultura latina anche presso quei Greci che, un tempo, negavano addirittura che ne esistesse una. I 31 libri delle Storie ammianee coprivano il periodo dal 96 al 378 d. C. Mancano i primi 13 libri, e cioè quei due secoli da Nerva a Costantino che ci sono noti frammentariamente attraverso Dione Cassio, le biografìe della Historia Augusta, i padri della Chiesa e i panegirici-testi variamente tendenziosi, reticenti e ambigui. Quello che resta riguarda gli avvenimenti dal 353 al 378: ed è un racconto avvincente, che la limpida traduzione d'un latinista insigne come A. Selem rende in modo esemplare, mentre l'introduzione storica e filologica illustra l'opera e l'autore. ★ * E' ancora storia, di vasto respiro, l'ultima della latinità al tramonto. Ligio al suo modello, Tacito, Ammiano ne assume l'impostazione rigorosamente conservatrice. Per un errore di prospettiva comune a chi, quando adotta una patria, un partito, una ideologia, ne accetta il mito, Ammiano sembra convinto della superiorità morale dei romani e dei patrizi; ma non rinuncia a descriverne con note sprezzanti i lussi, l'ignoranza, l'edonismo. Teoricamente, egli è un fervido assertore della eternità di Roma; ma, a guardarla contro luce, l'opera svela l'accorata denuncia che tutta la percorre ed emergono i mali che minavano il dominio e condannavano Roma a una fine imminente: la venalità dei funzionari, la crudeltà dei magistrati, l'esosità del fisco, la slealtà degli ufficiali di stirpe barbarica, il pullulare di delatori e spie, la ferocia dei sovrani, tormentati dai proble¬ mi della guerra incessante, il banditismo, le diserzioni, il distacco degli animi dallo Stato. Con noncuranza Ammiano lascia intendere che le invasioni coincidevano con casi clamorosi di malgoverno, e quindi se ne può desumere la connivenza del popolo con i nemici. * * Il contenuto autentico delle Storie di Ammiano non consiste nelle descrizioni celebri — degli Unni, dell'esercito persiano, della personalità dell'Apostata —, ma piuttosto nelle sue caute omissioni. Molti aspetti della personalità di Ammiano e dei fatti da lui narrati restano oscuri, ed è su questi che si accende l'interesse degli studiosi non è chiaro quale fosse la sua posizione rispetto a! cristianesimo né i suoi rapporti con l'aristocrazia romana. Come Tacito fa di Tiberio un subdolo degenerato, per conformità all'idea tipologica del tiranno, ma non ne disapprova un solo provvedimento, così Ammiano presenta in Valentiniano il despota, ma tollerante in materia di religione e grande soldato. Luci e ombre illuminano a tratti anche la figura solitaria e patetica di Giuliano, quel grande incompreso, odiato dai cristiani, malvisto dallo stesso ambiente conservatore di Roma per la sua passione verso la filosofia greca, laddove i circoli ellenistici delle province orientali ne deploravano gli atteggiamenti democratici, da romano dell'età repubblicana, poiché li giudicavano indegni d'un imperatore. Nella sua allocuzione alle truppe alla vigilia di quella guerra dalla quale non sarebbe tornato, il personaggio esprime — come sempre le « ultime parole famose » — il succo del suo pensiero, l'essenziale del suo operato (« Se la sorte vorrà ch'io cada, sarò fiero d'offrire la vita per l'Orbe romano, come un tempo i Curzi e i Muci... »). Ma. a un'attenta lettura, è stata rilevata in quel messaggio l'autogiustificazione dell'imperatore ai nazionalisti di Roma, sdegnati perché egli portava le armi in una guerra d'aggressione contro la Persia, conforme a un'idea unitaria della difesa che spiaceva ai latifondisti occidentali, desiderosi d'esser protetti sulle Alpi e sul Reno. E ne trae conferma il sospetto, già affacciato negli ambienti di Antiochia subito dopo l'evento, che i prodigi che precedettero la sua fine tradissero la diffusa consapevolezza che essa fosse imminente, mentre la « zagaglia barbara » che lo uccise non fosse scoccata da arcieri persiani e nemmeno da oppositori cristiani, ma da un sicario prezzolato da quei conservatori di Roma i cui ideali Giuliano sarebbe stato l'ultimo a difendere. Lidia Storoni

Luoghi citati: Persia, Roma, Urbe