Ingannevole Cina
Ingannevole Cina Ingannevole Cina La sceneggiatura del documentario di Antonioni che spiace a Pechino M. Antonioni: « Chung Kuo Cina», Ed. Einaudi, pagine 76, lire 1000. Tempestivamente esce la sceneggiatura del documentario di Antonioni sulla Cina, oggetto di polemica e di attacchi da parte di Pechino. Il sobrio commento di Andrea Barbato è unito alla minuziosa descrizione delle sequenze, ricostruite alla moviola. E' difficile tradurre in parola l'« intenzione » di una immagine, qualche volta si corre il rischio di prevaricare sull'autore. Ad esempio, a pagina 25: « La macchina da presa passa in rassegna i vari reparti del mercato, indugiando ora su questa ora su quella persona: il viso di un vecchietto dall'aria un po' stralunata, un altro vecchietto che sembra spaesato, evidentemente quasi incredulo di fronte a tanta abbondanza di cibo ». Mentre poco prima il commento aveva detto che « i cinesi hanno anche un'altra virtù, la ghiottoneria» e che « la tragedia asiatica della denutrizione è superata ». Tuttavia, proprio per la sua schematica semplificazione, la parafrasi delle immagini può aiutare il dibattito in corso. Facciamo finta per un momento che le accuse cinesi siano realmente circoscritte al film, che la discussione nasca soltanto da Chung Kuo. Restiamo all'inchiesta televisiva e all'esile libretto che oggi la ricostruisce per i distratti. La buona fede e la schiettezza di Antonioni sono fuori d'ogni sospetto. Nell'intervista dataci alcuni giorni fa egli ha manifestato una sorpresa legittima e la stia replica è stata fortemente motivata. Ma evidentemente lui cercava una cosa (gli uomini, i luoghi, il ritratto di un popolo) e i cinesi ne chiedevano un'altra. S'attendevano la celebrazione del loro «nuovo»; al regista interessava anche il peso della loro storia. I dirigenti di Pechino non chiedevano all'autore famoso in Occidente un documentario sugli aspetti della Cina, ma sulle sue ragioni rivoluzionarie. Antonioni dice giustamente: « L'economia e la politica non sono materiale plastico ». A patto di non inventare una opera di esplicita propaganda, che ha le sue leggi iconografiche. Ma i cinesi ribattono: ogni scelta dì immagine è una scelta ideologica, se il regista inquadra un contadino invece di una petroliera lascia intendere che siamo tecnologicamente arretrati. Non accettano evidentemente che l'ideologia dì Antonioni sìa « di fedeltà agli uomini e di partecipazione ai luoghi », di coerenza con se stesso e con le sue sorgenti culturali. Non capiscono, in una parola, che l'autore sìa più uomo di cinema che uomo polìtico. Eppure quando scrive, come nell'introduzione al libro, Antonioni non è affatto equivoco ed esce mondato anche dall'accusa singolare di confucianesimo. Dice: « Certo, Mao Tse-tung non è Confucio. Il "marxismo-leninismopensiero di Mao " ha voluto essere una rottura col confu cianesimo, e per questo ha accelerato in massimo grado il processo che ha portato un miliardo di uomini come protagonisti sulla scena del mondo. Ma anche Mao è un maestro di morale. Sono convinto che veramente la vita quotidiana dei cinesi... sia condizionata da un'idea comune del giusto e dell'ingiusto ». Da questo deriverebbe «una maggiore serenità nei rapporti umani ». Le convinzioni del regista, unite alle immagini, risolvono del tutto il problema? I cinesi possono dirsi soddisfatti? Forse c'è un'osservazione conclusiva da fare, che ci pare tocchi la sostanza del di¬ battito, oltre la vicenda di Antonioni. Con che occhi un intellettuale d'Occidente va oggi in Cina? Con l'anima lacerata tra la tentazione ideologica di trasformare il Paese in un parametro astratto delle proprie utopie e il sospetto, insieme deferente e aggressivo, nei confronti di una realtà diversa. Egli coltiva una Cina dentro di sé, che lotta con quella « vera »: nel l'attimo in cui ne scopre le apparenze, la condanna di nuovo al mistero. Stefano Reggiani Volti ripresi da Antonioni in « Chung Kuo Cina »
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