Al rullo del tamburo

Al rullo del tamburo TORINO HA 2000 ANNI: LA SUA STORIA Al rullo del tamburo IX Grandezza di Torino sull'inizio del secolo XVIII: 1706, la sconfitta dei Francesi di Luigi XIV, la liberazione della città per cui ad ogni aurora serena noi rivediamo sulla collina il profilo delle tre cupole di Superga. Miseria di Torino sul finire di quello stesso secolo, quando nel 1799 tante copie di alcuni manifesti conservati negli archivi erano affisse alle cantonate delle vie o poste sui tavoli dei locali pubblici. Erano primaverili soltanto nelle date: Germinai... Floréal... Firmati dal commissario politico francese J. M. Musset o dal comandante la piazza di Torino, General Fiorella. in Val Luserna Gli stanchi citoyens torinesi turbati e affamati, invece di parlare dei nuovi alimenti — bacche, tuberi, patate — consigliati dai botanici Balbis e Vassalli Eandi, leggevano ordini perentori, decreti, minacce. Pochi mesi dopo, durante l'effimera occupazione austro-russa, una diversa firma, quella del comandante della divisione e della piazza di Torino, Cavaliere dell'Ordine di Maria Teresa, barone De Keiin: un alleato, un amico, dunque, che ordinava la consegna immediata di « fucili, pistole, pistoletti, coltelli, stilet- ti, sciable, ed ogni qualunque altra arma, sotto pena di passare irremissibilmente per le armi ». Preferibili i Savoia — avranno commentato i poveri lettori — nonostante i loro biglietti regi che interferivano sulla giustizia dei tribunali. Essi amicissimi delle armi ammazzavano i ladri piuttosto che i detentori delle armi stesse, condannandoli soltanto alla tortura dei tratti di corda. La graziosa virtuosa intima e universale musica settecentesca anche a Torino era amata. Tuttavia non solo dai violini, dagli altri strumenti, dalle voci della reputatissima Cappella regia e dall'immaginata dolcezza dei bravissimi Somis, padre, figli e Cristina, o dalla maestria di Viotti potrebbe giungere l'infinito suono del tempo. L'armonia delle cose e della gente di due o più secoli prima di noi sopravvive nelle canzoni popolari. Per le figlie di Vittorio Amedeo II inviate spose — l'una undicenne, l'altra di tredici anni (precocità torinese!) — l'una in Francia, l'altra in Spagna; e più ancora per Maria Carolina, ultimogenita di Vittorio Amedeo III partita sposa per la « barbara » Sassonia, le canzoni esprimevano, ed esprimono una tristezza cosi intensa per la partenza da Torino, dal « lei giardin », da far supporre, in chi le compose, un disperato desiderio. Sul famoso barone di Leutrum, valoroso fedele generale di Carlo Emanuele III, sentiamo ancora cantare dai cori la bellissima melopea che narra della sua malattia mortale, del pianto di uomini e donne a Torino, del colloquio di lui con il re, del suo desiderio di essere sotterrato in vai Luserna, dove tanto riposa il cuore. Le canzoni militari e d'amore (quella della ragazza travestita da soldato), le tante che menzionano il re o il « fieul del re », tutte le melodie ingenue e p- r lo più corali e a note prolungate sono del « '700 o anche anteriori ». Si comprende un po' di più la nostra terra e Torino con la sua gente passata, se in qualche lunghissimo banchetto matrimoniale, nelle campagne relativamente fuori strada, o nelle feste all'osteria dei piccoli paesi senza attrattiva turistica o nella solitudine di un prato di pascolo alpino si ode — spontaneamente cantata — una di quelle poesie collettive. Sono tre dopo Vittorio Amedeo II i Savoia del Settecento: Carlo Emanuele III, Vittorio Amedeo 111, Carlo Emanuele IV. Carlo Emanuele III, meno illustre del glorioso e infelice suo padre, fu però di gran lunga maggiore dei due seguenti. Dopo la caccia, o forse come una caccia gli piacque la guerra. Sconfitto in riva al fiume Secchia (vi perdette persino il tesoro reale) cinque giorni dopo vinse a Guastalla. Vincitore a Cuneo, subì un disastro a Bassignana ed ebbe dai suoi granatieri un'illustre vittoria all'Assietta. Fu ora amico ora nemico degli Stati confinanti. Volubile anche verso gli uomini suoi collaboratori politici. Accolse letterati e scienziati, ma li voleva senza politica. Il Bareni e l'Alfieri emigrarono. Vittorio Amedeo III — che sull'esatta metà del secolo fu sposo sotto il vento di Oulx — protesse alcuni uomini colti, ed anche molti ricchi ignoranti. Militarista maniaco (dicono che stesse con il collo torto per imitare, a modo di piccione, Federico il Grande) egli fu il maggior responsabile della disonorevole e pesante pace di Cherasco. Ma davanti a lui non venne l'ombra di Federico, bensì Napoleone. Tamburi francesi « Collo torto » — o sant'uomo — secondo le contrastate e forse troppo svelte vedute — Carlo Emanuele IV; sposo — o bontà del ciclo! — della venerabile Maria Clotilde di Francia, che ricevette nella sua povera regalità, l'una dopo l'altra, le notizie della ghigliottina al fratello Luigi XVI, della ghigliottina alla sorella Elisabetta, della ghigliottina su la cognata Maria Antonietta. Le guerre e le peripezie del secolo XVIII insegnarono ai torinesi i confini più ampi della loro città e regione: quelli che si vedono da Superga e dalla Maddalena. La pianura, le colline, le Alpi da cui alla lor volta nei giorni e nelle notti serene si scorge, a vicenda, la caligine o il lucore di Torino. Quanti torinesi, appunto, reduci di guerra, rientrati dopo lunghe marce, avranno poi rammentato la vastità del Piemonte, le somiglianze e le differenze dei suoi abitanti. Nel 1707, pochi mesi dopo la vittoria di Torino, la salita, una fatica, sì, ma anche una passeggiata, al Colle di Tenda. Si era di scorta nientemeno che a Vittorio Amedeo Il e al Principe Eugenio. Cavalcavano lenti e allegri. Si udivano, così vicine, le loro voci. Cent'anni dopo, altri testimoni che erano stati a Le Terre Rosse e nella vittoriosa trincea scavata sul Colle di Raus, nel giugno 1793. Che lotta, che forza — anche mediante i sassi — e che entusiasmo! E le Barricate di Valle Stura? E il forte Mirabouc in Val Pellice? E il cavaliere Del Carretto sulla collina della Cosseria? Chi fosse stato di guardia, al finire del secolo, nei valloni 0 sulle creste dell'Assiema avrà forse udito narrare l'episodio di cinquant'anni prima. E avrà sentito il remoto rullio dei tamburi francesi, che secondo alcuni riecheggia ogni sera? No, ma gli avranno detto di quel giovanissimo granatiere francese che mentre saliva con tutti i commilitoni eccitati dal rullio continuo dei tamburi si sentì afferrare da un montanaro non visto prima, saltato su oltre un arbusto di ginepro. Non s'era potuto liberare, subito e gli altri intanto erano più in sù, più in là: un tuono immane aveva sopraffatto il rullio dei tamburi, 1 granatieri erano spariti in un turbine di fumo, dilaniati dallo scoppio simultaneo di tutto un campo minato. Il giovane salvo e disperato quarantanni dopo ritornò su quell'estrema salita, in quella montagna dei giovani morti. Già sera, un vagare informe di nebbia; e un tuono lontano che s'approssima. O no? il rullio, il rombo duro dei tamburi. Di lassù, dal luogo ove era ritornato a cercare la gioventù perduta, il vecchio — dicono — non è più tornato. Tino Richelmy (Venerdì su Stampa Sera il prossimo articolo). Al rullo del tamburo TORINO HA 2000 ANNI: LA SUA STORIA Al rullo del tamburo IX Grandezza di Torino sull'inizio del secolo XVIII: 1706, la sconfitta dei Francesi di Luigi XIV, la liberazione della città per cui ad ogni aurora serena noi rivediamo sulla collina il profilo delle tre cupole di Superga. Miseria di Torino sul finire di quello stesso secolo, quando nel 1799 tante copie di alcuni manifesti conservati negli archivi erano affisse alle cantonate delle vie o poste sui tavoli dei locali pubblici. Erano primaverili soltanto nelle date: Germinai... Floréal... Firmati dal commissario politico francese J. M. Musset o dal comandante la piazza di Torino, General Fiorella. in Val Luserna Gli stanchi citoyens torinesi turbati e affamati, invece di parlare dei nuovi alimenti — bacche, tuberi, patate — consigliati dai botanici Balbis e Vassalli Eandi, leggevano ordini perentori, decreti, minacce. Pochi mesi dopo, durante l'effimera occupazione austro-russa, una diversa firma, quella del comandante della divisione e della piazza di Torino, Cavaliere dell'Ordine di Maria Teresa, barone De Keiin: un alleato, un amico, dunque, che ordinava la consegna immediata di « fucili, pistole, pistoletti, coltelli, stilet- ti, sciable, ed ogni qualunque altra arma, sotto pena di passare irremissibilmente per le armi ». Preferibili i Savoia — avranno commentato i poveri lettori — nonostante i loro biglietti regi che interferivano sulla giustizia dei tribunali. Essi amicissimi delle armi ammazzavano i ladri piuttosto che i detentori delle armi stesse, condannandoli soltanto alla tortura dei tratti di corda. La graziosa virtuosa intima e universale musica settecentesca anche a Torino era amata. Tuttavia non solo dai violini, dagli altri strumenti, dalle voci della reputatissima Cappella regia e dall'immaginata dolcezza dei bravissimi Somis, padre, figli e Cristina, o dalla maestria di Viotti potrebbe giungere l'infinito suono del tempo. L'armonia delle cose e della gente di due o più secoli prima di noi sopravvive nelle canzoni popolari. Per le figlie di Vittorio Amedeo II inviate spose — l'una undicenne, l'altra di tredici anni (precocità torinese!) — l'una in Francia, l'altra in Spagna; e più ancora per Maria Carolina, ultimogenita di Vittorio Amedeo III partita sposa per la « barbara » Sassonia, le canzoni esprimevano, ed esprimono una tristezza cosi intensa per la partenza da Torino, dal « lei giardin », da far supporre, in chi le compose, un disperato desiderio. Sul famoso barone di Leutrum, valoroso fedele generale di Carlo Emanuele III, sentiamo ancora cantare dai cori la bellissima melopea che narra della sua malattia mortale, del pianto di uomini e donne a Torino, del colloquio di lui con il re, del suo desiderio di essere sotterrato in vai Luserna, dove tanto riposa il cuore. Le canzoni militari e d'amore (quella della ragazza travestita da soldato), le tante che menzionano il re o il « fieul del re », tutte le melodie ingenue e p- r lo più corali e a note prolungate sono del « '700 o anche anteriori ». Si comprende un po' di più la nostra terra e Torino con la sua gente passata, se in qualche lunghissimo banchetto matrimoniale, nelle campagne relativamente fuori strada, o nelle feste all'osteria dei piccoli paesi senza attrattiva turistica o nella solitudine di un prato di pascolo alpino si ode — spontaneamente cantata — una di quelle poesie collettive. Sono tre dopo Vittorio Amedeo II i Savoia del Settecento: Carlo Emanuele III, Vittorio Amedeo 111, Carlo Emanuele IV. Carlo Emanuele III, meno illustre del glorioso e infelice suo padre, fu però di gran lunga maggiore dei due seguenti. Dopo la caccia, o forse come una caccia gli piacque la guerra. Sconfitto in riva al fiume Secchia (vi perdette persino il tesoro reale) cinque giorni dopo vinse a Guastalla. Vincitore a Cuneo, subì un disastro a Bassignana ed ebbe dai suoi granatieri un'illustre vittoria all'Assietta. Fu ora amico ora nemico degli Stati confinanti. Volubile anche verso gli uomini suoi collaboratori politici. Accolse letterati e scienziati, ma li voleva senza politica. Il Bareni e l'Alfieri emigrarono. Vittorio Amedeo III — che sull'esatta metà del secolo fu sposo sotto il vento di Oulx — protesse alcuni uomini colti, ed anche molti ricchi ignoranti. Militarista maniaco (dicono che stesse con il collo torto per imitare, a modo di piccione, Federico il Grande) egli fu il maggior responsabile della disonorevole e pesante pace di Cherasco. Ma davanti a lui non venne l'ombra di Federico, bensì Napoleone. Tamburi francesi « Collo torto » — o sant'uomo — secondo le contrastate e forse troppo svelte vedute — Carlo Emanuele IV; sposo — o bontà del ciclo! — della venerabile Maria Clotilde di Francia, che ricevette nella sua povera regalità, l'una dopo l'altra, le notizie della ghigliottina al fratello Luigi XVI, della ghigliottina alla sorella Elisabetta, della ghigliottina su la cognata Maria Antonietta. Le guerre e le peripezie del secolo XVIII insegnarono ai torinesi i confini più ampi della loro città e regione: quelli che si vedono da Superga e dalla Maddalena. La pianura, le colline, le Alpi da cui alla lor volta nei giorni e nelle notti serene si scorge, a vicenda, la caligine o il lucore di Torino. Quanti torinesi, appunto, reduci di guerra, rientrati dopo lunghe marce, avranno poi rammentato la vastità del Piemonte, le somiglianze e le differenze dei suoi abitanti. Nel 1707, pochi mesi dopo la vittoria di Torino, la salita, una fatica, sì, ma anche una passeggiata, al Colle di Tenda. Si era di scorta nientemeno che a Vittorio Amedeo Il e al Principe Eugenio. Cavalcavano lenti e allegri. Si udivano, così vicine, le loro voci. Cent'anni dopo, altri testimoni che erano stati a Le Terre Rosse e nella vittoriosa trincea scavata sul Colle di Raus, nel giugno 1793. Che lotta, che forza — anche mediante i sassi — e che entusiasmo! E le Barricate di Valle Stura? E il forte Mirabouc in Val Pellice? E il cavaliere Del Carretto sulla collina della Cosseria? Chi fosse stato di guardia, al finire del secolo, nei valloni 0 sulle creste dell'Assiema avrà forse udito narrare l'episodio di cinquant'anni prima. E avrà sentito il remoto rullio dei tamburi francesi, che secondo alcuni riecheggia ogni sera? No, ma gli avranno detto di quel giovanissimo granatiere francese che mentre saliva con tutti i commilitoni eccitati dal rullio continuo dei tamburi si sentì afferrare da un montanaro non visto prima, saltato su oltre un arbusto di ginepro. Non s'era potuto liberare, subito e gli altri intanto erano più in sù, più in là: un tuono immane aveva sopraffatto il rullio dei tamburi, 1 granatieri erano spariti in un turbine di fumo, dilaniati dallo scoppio simultaneo di tutto un campo minato. Il giovane salvo e disperato quarantanni dopo ritornò su quell'estrema salita, in quella montagna dei giovani morti. Già sera, un vagare informe di nebbia; e un tuono lontano che s'approssima. O no? il rullio, il rombo duro dei tamburi. Di lassù, dal luogo ove era ritornato a cercare la gioventù perduta, il vecchio — dicono — non è più tornato. Tino Richelmy (Venerdì su Stampa Sera il prossimo articolo).