Sceicchi, chi sono di Paolo Patruno

Sceicchi, chi sono Comincia un'inchiesta sui signori del petrolio Sceicchi, chi sono Nascono poveri, democratici, altruisti, nel deserto dell'Arabia fra le tribù di beduini - Uno così si descrive: "Paziente a lasciarmi spogliare da chi ha bisogno, divido il mio corpo tra molti altri corpi" - All'inizio non hanno un potere politico, ma solo spirituale e religioso La crisi del petrolio ha fatto scoprire che questa fonte di energia non è illimitata e a disposizione di tutti, ma ha del padroni. Questi padroni sono, per noi europei, soprattutto nel mondo arabo. Cosi 1 nostri giornali, accanto al re dell'Arabia Saudita, hanno cominciato a parlare sempre più spesso di sceicchi, emiri, signori del Golfo Persico. Ma chi sono davvero gli sceicchi? Qual è la storia, lontana e vicina, di questi padroni del petrolio? Quali sono le loro origini, le abitudini, l'ideologia che sorregge la loro antica autorità? Per rispondere a queste domande, comincia da oggi su « Stampa Sera » un'inchiesta di Gianni Gambarotta, Paolo Patruno e Carlo Sartori. Essa segue l'altra svolta da Ennio Caretto (pubblicata nelle scorse settimane) sulle « Sette Sorelle », le grandi compagnie petrolifere americane ed europee. Avremo cosi una storia completa del Signori del Petrolio. «O Abu Dulaygiah, chi verrà in aiuto alla tribù, quando tien consiglio piena di affannose incertezze? Chi sarà oratore, quando essa è raccolta intorno ai re potenti e valorosi? Chi sarà la nostra guida, se la giustizia si allontana da noi, per riportarci sulla retta via?». E', questa, una delle prime testimonianze che la polvere dei secoli ci ha restituito sugli sceicchi dell'Arabia: è la voce del poeta Aws Ibn Hagiar, che con parole di ammirazione e di dolore tratteggia l'ideale del capo in un carme per la morte dello sceicco della sua tribù. Passa qualche tempo, e nel sesto secolo dopo Cristo, verso la fine dell'età preislamica, la poetessa Al Hansà, che vive fra le rocce inospitali del Neged, chiama suo fratello, il giovane capo dei Banu Sulaym, «padre degli orfanelli quando il crudo inverno discende», e così descrive la sua liberalità: «Egli sgozza le opulente cammelle piene di latte, e quelle che stanno per partorire, e riempie di grasso le scodelle, che sembrano splendere come l'alba. Allora tu vedi i miserfatti satolli». Un capo-eroe Le fa eco nella stessa epoca un altro poeta — e sceìcco — Al Word, che parlando di sé dice con orgoglio: «Paziente a lasciarmi spogliare dai clienti bisognosi, buon custode del mio onore; magro e scarno d'inverno, fatto oggetto d'infinite richiestema serbando chiara la fronte, mentre i figli dei vili hanno livido colore di polvere»E ammonisce severo un avversario: «Ti beffi di me perché sei ben pasciuto, mentre vedi il mio corpo toccato dadovere, dal faticoso dovere10 divido il mio corpo tra molti altri corpi, e mi contento di bere acqua fredda11 mio letto è il letto dell'ospite, la mia casa è la sua casa». Lo sceicco nasce poverodemocratico, altruista. Nasce in un'epoca imprecisat— tremila anni fa? — nei deserti dell'Arabia spazzata daventi, fra le tribù dì beduinche mai riposano e trascinano una vita di pastorìzia, rapina, guerriglia. Il suo nomoriginario non è l'attualsheykh (vecchio, venerable), ma sayyd, il parlatore, idotto, ossia colui che, con lsua saggezza, compone i dissidi sorti nella iribù. Non un despota che a capriccidispone degli averi e dell vita dei sudditi; non ha, su di loro, diritti assoluti, né può pretendere una cieca obbedienza ai propri ordini o desideri: il solo legame che i beduini sentono è quello della tribù, e ad esso si piegano per una necessità di conservazione (nel deserto è impossibile vivere soli), nel bene e nel male: «Io sono uno della tribù di Gaziyya; se essa erra, io erro con lei, e se va sulla retta via, con lei io vado», suona il verso di un poeta. Primo fra uguali, il sayyd è però il sostegno della tribù, la quale gli si stringe intorno; dinanzi a lui, in segno d'onore, si alzano gli uomini come «innanzi alla luna novella». Al pari di tutti i grandi della tribù, egli porta in testa un turbante, ma nelle circostanze solenni sfoggia un copricapo più ricco degli altri. Per lui viene sempre eretto un padiglione speciale, la qubbah, dove si tiene l'assemblea dei guerrieri, e verso cui si dirìgono il forestiero che domanda ospitalità, le vedove e gli orfani che cercano protezione. L'autorità di questo capoeroe non è ereditaria: solo la libera elezione dei membri della tribù può confermare l'incarico ai suoi discendenti. E poiché tale conferma non avviene molto spesso, si considera come un caso rarissimo quello dì una famiglia che domini per quattro o più generazioni. Non occorre un'età avanzata per divenire capo: la poetessa Al Hansà si compiace perché suo fratello, giovinetto imberbe, signoreggia tra i Banu Sulaym. E uno storico, lodando i Banu Sad, rammenta che talvolta essi hanno un sayyd ancora senza barba. Un verso di un carme ci mostra il famoso poeta Tarafah principe illustre a venticinque anni: «Contammo per lui venticinque volte il mese del pellegrinaggio; al loro compimento egli era pari ad un capo possente». Essendo lo sceicco solo una guida spirituale, le grandi deliberazioni non spettano a lui, ma alle assemblee delle tribù, dove è compito del sayyd dirìgere la discussione, che non degeneri in contesa, e troncare con la sua autorità i litigi. Per questo i grandi della tribù, coloro che possono vantare una lunga serie di antenati illustri e nelle cui vene non scorra sangue di schiavi, hanno praticamente un'autorità di poco inferiore a quella del capo da loro eletto. Alcuni sayyd, come il leggendario Sakhr descrìtto da Al Hansà, sono al tempo stesso capitani della loro tribù in guerra e dirigono le razzie alla testa dei cavalierima questa non è la regola costante. Il comando in guerra viene quasi sempre affidato a una persona diversa dal sayyd: questo condottiero, detto talvolta qaid, ma più di frequente rais, viene eletto per tutto il tempo delle ostilità e, con la fine dqueste, destituito dalla carica. A condizionare lo sceicco c'è anche rhakam, o giudiceal quale si ricorre per mettere fine a una lunga contesaper troncare inimicizie che ormai sembrano inestinguibili tra due tribù rivaliQuando i beduini partono per una impresa difficileviene consultato anche il kahin, o indovino, il cui re sponso, religiosamente seguito, regola talvolta le mosse dell'esercito. Ed è tanto grande il rispetto dovutogli, che un indovino dei Banu Sad chiama i membri della tribù «servi miei», ed essi rispondono: «Eccoci, o padrone nostro». Nessun sayyd, per quanto potente, avrebbe mai usato queste parole. Società divisa Gli arabi dei tempi in cui nasce lo sceicco sono divisi in due grandi classi: gli abitatori delle città e gli abitatori delle tende, i sedentari e i beduini. I primi sono sparsi sulle coste, specialmente occidentali, della penisola; coltivano la terra, vivono dei frutti dei palmizi e del profitto degli scambi commerciali. I beduini, sparsi all'interno su per i monti o nei deserti, pascolano greggi, vivono del latte e della carne dei cammelli; alla continua ricerca di acqua e di erba, mutano spesso dimora, depredando talvolta i viaggiatori, derubandosi anche tra loro. Già allora, e per molti secoli in avvenire, sorge tra le due classi della nazione araba una specie di antipatia e di mutuo disprezzo. Sono tutti però, a quanto pare, di religione monoteista. Credono, dalla venuta di Abramo in poi, nell'esistenza di un dio unico, che chiamano Allah taala (il dio altissimo). Accanto a lui riconoscono e onorano divinità inferiori, localizzate nelle stelle, nelle pietre o negli alberi: e il culto si trasforma presto in feticismo. Qualche studioso ha anche affacciato l'ipotesi che gli arabi antichi siano — e fino ad epoca abbastanza recente — cannibali, sulla base del ricordo di uno sceicco soprannominato «sharib ad-dimà», bevitore di sangue, e da alcuni versi di poesie satiriche, dove si minaccia di «divorar l'avversario». Gli storici filoarabi si sono scagliati contro questa insinuazione: allo stesso modo, dicono, un sociologo dell'avvenire potrà accusare noi di antropofagia o almeno di ricordi cannibaleschi, perché nel linguaggio familiare esistono le espressioni «mangiapreti» o «mangiar uno vivo». La donna, nella società degli antichi sayyd, ha un posto assai diverso dall'attuale. Il Corano dirà ai maschi: «Sposate quante donne vi piacciono, due, tre, quattro. Date alle donne le loro doti in spontaneo dono, ma se esse liberamente ne cedono a voi una parte, godetevela con gioia e salute». Prima del Corano, caso mai, è in voga la poliandria (o forse si tratta più semplicemente di prostituzione) e la donna, se sopravvìve al primo anno (il padre, molto più felice alla nascita d'un cammello che di una figlia, può uccìderla) ha un ruolo importante sotto la tenda del sayyd o di qualsiasi membro della tribù, ed è oggetto di venerazione, rispetto, amore. Maometto insegnerà invece ai più moderni sceicchi: «Le vostre donne sono vostre schiave e vostre prigioniere». Vino e guerra L'arabo, in ispecie il capo, ama la guerra, la zuffa, la caccia, la razzia. Ama il vino e la sfrenatezza sessuale: sono i suoi atyaban (le due cose più gradite). Ha uno spiccato senso dell'onore, è spinto quasi sempre da un orgoglio smisurato e talvolta puerile per la propria dignità: uno schiaffo dato a Sanfarà da una giovinetta a cui egli ha sorriso teneramente, accende la sua ira ed egli giura di uccidere con le frecce infallibili cento nemici; ne uccide solo 99 e muore, ma l'ultimo, il centesimo, cade trafitto su unii spada dopo aver inciampato nel cranio di lui gettato al suolo. Vendicativo (l'offesa si lava con la legge del taglione), astuto più che coraggioso, l'antico arabo ha però il piacere dell'ospitalità verso lo straniero e della liberalità verso i protetti. Nelle cronache del tempo è famoso il nome dello sceicco Hatim at-Taì, l'eroe della generosità, che vende, per comprare doni, tutti i suoi greggi e i suoi cavalli, che libera schiavi e prigionieri e vuole restare garante del loro riscatto. E alla sua donna, che gli consiglia moderazione e parsimonia, risponde: «O mia diletta, la ricchezza viene il mattino, parte la sera; non ne resta niente, nient'altro che racconti e ricordi. Quando la mia anima volerà per il deserto, quando io non avrò più né acqua né vino, tu vedrai allora che io non ho donato invano». Gianni Gambarotta Paolo Patruno Carlo Sartori Domani su «Stampa Sera» la seconda puntata della vera storia degli sceicchi: «Da beduini a capi». Tradizione e progresso a Barhein: un arabo legge il Corano accanto ad una «Rolls Royce» (foto Pier Giorgio Sclarandis) Sceicchi, chi sono Comincia un'inchiesta sui signori del petrolio Sceicchi, chi sono Nascono poveri, democratici, altruisti, nel deserto dell'Arabia fra le tribù di beduini - Uno così si descrive: "Paziente a lasciarmi spogliare da chi ha bisogno, divido il mio corpo tra molti altri corpi" - All'inizio non hanno un potere politico, ma solo spirituale e religioso La crisi del petrolio ha fatto scoprire che questa fonte di energia non è illimitata e a disposizione di tutti, ma ha del padroni. Questi padroni sono, per noi europei, soprattutto nel mondo arabo. Cosi 1 nostri giornali, accanto al re dell'Arabia Saudita, hanno cominciato a parlare sempre più spesso di sceicchi, emiri, signori del Golfo Persico. Ma chi sono davvero gli sceicchi? Qual è la storia, lontana e vicina, di questi padroni del petrolio? Quali sono le loro origini, le abitudini, l'ideologia che sorregge la loro antica autorità? Per rispondere a queste domande, comincia da oggi su « Stampa Sera » un'inchiesta di Gianni Gambarotta, Paolo Patruno e Carlo Sartori. Essa segue l'altra svolta da Ennio Caretto (pubblicata nelle scorse settimane) sulle « Sette Sorelle », le grandi compagnie petrolifere americane ed europee. Avremo cosi una storia completa del Signori del Petrolio. «O Abu Dulaygiah, chi verrà in aiuto alla tribù, quando tien consiglio piena di affannose incertezze? Chi sarà oratore, quando essa è raccolta intorno ai re potenti e valorosi? Chi sarà la nostra guida, se la giustizia si allontana da noi, per riportarci sulla retta via?». E', questa, una delle prime testimonianze che la polvere dei secoli ci ha restituito sugli sceicchi dell'Arabia: è la voce del poeta Aws Ibn Hagiar, che con parole di ammirazione e di dolore tratteggia l'ideale del capo in un carme per la morte dello sceicco della sua tribù. Passa qualche tempo, e nel sesto secolo dopo Cristo, verso la fine dell'età preislamica, la poetessa Al Hansà, che vive fra le rocce inospitali del Neged, chiama suo fratello, il giovane capo dei Banu Sulaym, «padre degli orfanelli quando il crudo inverno discende», e così descrive la sua liberalità: «Egli sgozza le opulente cammelle piene di latte, e quelle che stanno per partorire, e riempie di grasso le scodelle, che sembrano splendere come l'alba. Allora tu vedi i miserfatti satolli». Un capo-eroe Le fa eco nella stessa epoca un altro poeta — e sceìcco — Al Word, che parlando di sé dice con orgoglio: «Paziente a lasciarmi spogliare dai clienti bisognosi, buon custode del mio onore; magro e scarno d'inverno, fatto oggetto d'infinite richiestema serbando chiara la fronte, mentre i figli dei vili hanno livido colore di polvere»E ammonisce severo un avversario: «Ti beffi di me perché sei ben pasciuto, mentre vedi il mio corpo toccato dadovere, dal faticoso dovere10 divido il mio corpo tra molti altri corpi, e mi contento di bere acqua fredda11 mio letto è il letto dell'ospite, la mia casa è la sua casa». Lo sceicco nasce poverodemocratico, altruista. Nasce in un'epoca imprecisat— tremila anni fa? — nei deserti dell'Arabia spazzata daventi, fra le tribù dì beduinche mai riposano e trascinano una vita di pastorìzia, rapina, guerriglia. Il suo nomoriginario non è l'attualsheykh (vecchio, venerable), ma sayyd, il parlatore, idotto, ossia colui che, con lsua saggezza, compone i dissidi sorti nella iribù. Non un despota che a capriccidispone degli averi e dell vita dei sudditi; non ha, su di loro, diritti assoluti, né può pretendere una cieca obbedienza ai propri ordini o desideri: il solo legame che i beduini sentono è quello della tribù, e ad esso si piegano per una necessità di conservazione (nel deserto è impossibile vivere soli), nel bene e nel male: «Io sono uno della tribù di Gaziyya; se essa erra, io erro con lei, e se va sulla retta via, con lei io vado», suona il verso di un poeta. Primo fra uguali, il sayyd è però il sostegno della tribù, la quale gli si stringe intorno; dinanzi a lui, in segno d'onore, si alzano gli uomini come «innanzi alla luna novella». Al pari di tutti i grandi della tribù, egli porta in testa un turbante, ma nelle circostanze solenni sfoggia un copricapo più ricco degli altri. Per lui viene sempre eretto un padiglione speciale, la qubbah, dove si tiene l'assemblea dei guerrieri, e verso cui si dirìgono il forestiero che domanda ospitalità, le vedove e gli orfani che cercano protezione. L'autorità di questo capoeroe non è ereditaria: solo la libera elezione dei membri della tribù può confermare l'incarico ai suoi discendenti. E poiché tale conferma non avviene molto spesso, si considera come un caso rarissimo quello dì una famiglia che domini per quattro o più generazioni. Non occorre un'età avanzata per divenire capo: la poetessa Al Hansà si compiace perché suo fratello, giovinetto imberbe, signoreggia tra i Banu Sulaym. E uno storico, lodando i Banu Sad, rammenta che talvolta essi hanno un sayyd ancora senza barba. Un verso di un carme ci mostra il famoso poeta Tarafah principe illustre a venticinque anni: «Contammo per lui venticinque volte il mese del pellegrinaggio; al loro compimento egli era pari ad un capo possente». Essendo lo sceicco solo una guida spirituale, le grandi deliberazioni non spettano a lui, ma alle assemblee delle tribù, dove è compito del sayyd dirìgere la discussione, che non degeneri in contesa, e troncare con la sua autorità i litigi. Per questo i grandi della tribù, coloro che possono vantare una lunga serie di antenati illustri e nelle cui vene non scorra sangue di schiavi, hanno praticamente un'autorità di poco inferiore a quella del capo da loro eletto. Alcuni sayyd, come il leggendario Sakhr descrìtto da Al Hansà, sono al tempo stesso capitani della loro tribù in guerra e dirigono le razzie alla testa dei cavalierima questa non è la regola costante. Il comando in guerra viene quasi sempre affidato a una persona diversa dal sayyd: questo condottiero, detto talvolta qaid, ma più di frequente rais, viene eletto per tutto il tempo delle ostilità e, con la fine dqueste, destituito dalla carica. A condizionare lo sceicco c'è anche rhakam, o giudiceal quale si ricorre per mettere fine a una lunga contesaper troncare inimicizie che ormai sembrano inestinguibili tra due tribù rivaliQuando i beduini partono per una impresa difficileviene consultato anche il kahin, o indovino, il cui re sponso, religiosamente seguito, regola talvolta le mosse dell'esercito. Ed è tanto grande il rispetto dovutogli, che un indovino dei Banu Sad chiama i membri della tribù «servi miei», ed essi rispondono: «Eccoci, o padrone nostro». Nessun sayyd, per quanto potente, avrebbe mai usato queste parole. Società divisa Gli arabi dei tempi in cui nasce lo sceicco sono divisi in due grandi classi: gli abitatori delle città e gli abitatori delle tende, i sedentari e i beduini. I primi sono sparsi sulle coste, specialmente occidentali, della penisola; coltivano la terra, vivono dei frutti dei palmizi e del profitto degli scambi commerciali. I beduini, sparsi all'interno su per i monti o nei deserti, pascolano greggi, vivono del latte e della carne dei cammelli; alla continua ricerca di acqua e di erba, mutano spesso dimora, depredando talvolta i viaggiatori, derubandosi anche tra loro. Già allora, e per molti secoli in avvenire, sorge tra le due classi della nazione araba una specie di antipatia e di mutuo disprezzo. Sono tutti però, a quanto pare, di religione monoteista. Credono, dalla venuta di Abramo in poi, nell'esistenza di un dio unico, che chiamano Allah taala (il dio altissimo). Accanto a lui riconoscono e onorano divinità inferiori, localizzate nelle stelle, nelle pietre o negli alberi: e il culto si trasforma presto in feticismo. Qualche studioso ha anche affacciato l'ipotesi che gli arabi antichi siano — e fino ad epoca abbastanza recente — cannibali, sulla base del ricordo di uno sceicco soprannominato «sharib ad-dimà», bevitore di sangue, e da alcuni versi di poesie satiriche, dove si minaccia di «divorar l'avversario». Gli storici filoarabi si sono scagliati contro questa insinuazione: allo stesso modo, dicono, un sociologo dell'avvenire potrà accusare noi di antropofagia o almeno di ricordi cannibaleschi, perché nel linguaggio familiare esistono le espressioni «mangiapreti» o «mangiar uno vivo». La donna, nella società degli antichi sayyd, ha un posto assai diverso dall'attuale. Il Corano dirà ai maschi: «Sposate quante donne vi piacciono, due, tre, quattro. Date alle donne le loro doti in spontaneo dono, ma se esse liberamente ne cedono a voi una parte, godetevela con gioia e salute». Prima del Corano, caso mai, è in voga la poliandria (o forse si tratta più semplicemente di prostituzione) e la donna, se sopravvìve al primo anno (il padre, molto più felice alla nascita d'un cammello che di una figlia, può uccìderla) ha un ruolo importante sotto la tenda del sayyd o di qualsiasi membro della tribù, ed è oggetto di venerazione, rispetto, amore. Maometto insegnerà invece ai più moderni sceicchi: «Le vostre donne sono vostre schiave e vostre prigioniere». Vino e guerra L'arabo, in ispecie il capo, ama la guerra, la zuffa, la caccia, la razzia. Ama il vino e la sfrenatezza sessuale: sono i suoi atyaban (le due cose più gradite). Ha uno spiccato senso dell'onore, è spinto quasi sempre da un orgoglio smisurato e talvolta puerile per la propria dignità: uno schiaffo dato a Sanfarà da una giovinetta a cui egli ha sorriso teneramente, accende la sua ira ed egli giura di uccidere con le frecce infallibili cento nemici; ne uccide solo 99 e muore, ma l'ultimo, il centesimo, cade trafitto su unii spada dopo aver inciampato nel cranio di lui gettato al suolo. Vendicativo (l'offesa si lava con la legge del taglione), astuto più che coraggioso, l'antico arabo ha però il piacere dell'ospitalità verso lo straniero e della liberalità verso i protetti. Nelle cronache del tempo è famoso il nome dello sceicco Hatim at-Taì, l'eroe della generosità, che vende, per comprare doni, tutti i suoi greggi e i suoi cavalli, che libera schiavi e prigionieri e vuole restare garante del loro riscatto. E alla sua donna, che gli consiglia moderazione e parsimonia, risponde: «O mia diletta, la ricchezza viene il mattino, parte la sera; non ne resta niente, nient'altro che racconti e ricordi. Quando la mia anima volerà per il deserto, quando io non avrò più né acqua né vino, tu vedrai allora che io non ho donato invano». Gianni Gambarotta Paolo Patruno Carlo Sartori Domani su «Stampa Sera» la seconda puntata della vera storia degli sceicchi: «Da beduini a capi». Tradizione e progresso a Barhein: un arabo legge il Corano accanto ad una «Rolls Royce» (foto Pier Giorgio Sclarandis)

Luoghi citati: Arabia, Arabia Saudita