L'«Edera» appassita

L'«Edera» appassita DELEDDA ALLA TV L'«Edera» appassita Non penso sia scortesia svelare il finale (televisivo) dell'Egra di Grazia Deledda, a quei pochi spettatori, coraggiosi, che ancora siano rimasti ieri sera davanti al piccolo schermo. Annesa non pagherà la pena dovuta al suo delitto. Anzi Paulu le proporrà il matrimonio; ma Annesa rinuncerà per sempre all'amante, per espiare così la propria duplice colpa: quella d'aver amato, lei «serva» il proprio «padrone», e quella d'aver ucciso il vecchio asmatico. Finisce in questo modo con logica assurda, l'assurda vicenda dell'Edera televisiva, sacrificando, per amore di un finale strappalacrime, ancora molte pagine del romanzo. E legittimamente ci si può chiedere quale sarà il « sugo » che ne trarrà il telespettatore: perché avrà avuto pure un senso questo riproporre una storia del 1908, ai più — oggi — incomprensibile. Il regista Fina ha dichiarato di aver inteso offrire « attraver. so la televisione », una « rappresentazione » della Sardegna che superasse i « limiti imposti dal " clichet " della violenza ». E per questo — ha detto — si è « concesso alcune libertà di lettura, nel tentativo di restituire ai personaggi quanto era rimasto solo nei sentimenti della Deledda ». La battuta del regista Fina sembra un po' a quelle frasi ad effetto che con orgoglio abbiamo un po' tutti inserito alla fine di un nostro componimento ginnasiale, con la presunzione di aver detto chi sa che cosa. Bene; ma qual è questa Sardegna «diversa»? E' la Sardegna folkloristica delle nenie e dei canti, dei balletti e delle cantilene ecclesiastiche, delle pecore e delle barbe (incolte), che non si trova — assolutamente — nel romanzo scritto? Oppure è la Sardegna di un ipotetico e paradisiaco quieti smo sociale: in cui la « serva » Annesa sacrifica se stessa per difendere il patrimonio dei suoi « padroni » (che son chiamati però « benefattori ») fino all'autodistruzione? * ★ La televisione, nella sua mas siccia programmazione di ro manzi dell'Ottocento, ci ha or mai abituati a queste amene considerazioni. Se è vero — come ha affermato con orgo glio qualche dirigente — che proprio nello sceneggiato la televisione ha trovato il « suo » linguaggio culturale: è anche vero che questo « linguaggio » desta serie perplessità. La cultura per la tv è sonnifero per ogni velleità a star svegli, calmante all'inquietudine, è diversivo a qualsiasi curiosità. E non vale l'alibi degli indici di gradimento. Le statistiche della Rai ci diranno che hanno assistito all'Edera almeno quindici milioni di spettatori e re gistreranno (come è capitato per quasi tutti i teleromanzi) un indice di gradimento pari a quello fatto segnare per una finale di calcio nella Coppa dei Campioni. Certo, anche una modesta e insipida scaloppina nel menu di una corsia d'ospedale registrerebbe un alto indice di gradimento, da parte di tanti mutuati che son giunti a dimenticare il sapore di un'autentica bistecca. Né vale l'alibi della promo zione culturale: i librai non venderanno tante copie dell'Egra in queste settimane. La televisione invece ha reso un cattivo servizio a Grazia Deledda. Il romanzo non ha pochi limiti e soffre di troppe ipoteche ottocentesche. Paulu è un altro eroe negativo dell'indolenza borghese dell'800 « dal viso fine e pallido, dagli occhi melanconici di donna ». « Cavaliere spiantato » e « ricco ispassiosu », impreca contro la sorte per la rovina della propria casa e va cercando in giro per la Sardegna i denari per salvarla, senza nemmeno pensare che i soldi qualche volta si guadagnano anche lavorando. E la « serva » Annesa ha in sé un eroismo troppo meccanico, e una considerazione così avvilente della propria dignità (si paragona ad uno « straccio » gettato nella via da una « maschera ubriaca »), che scatenerà i fulmini di una femminista pur moderata, ma che potrà irritare e offendere anhe il buon senso. Al di là di questi limiti vistosi l'Edera ha tuttavia qual-cosa di grande da offrire al lettore. Ed è proprio l'immagine di una Sardegna « diversa », che non è però quella folkloristica, né quella rassegnata all'ingiustizia sociale dello sceneggiato. E' invece l'immagine di una Sardegna che si pone, consapevolmente e polemicamente, al di fuori della storia: in uno spazio di favola, in un tempo mitico. C'è una « arcana nostalgia » nel « carattere del popolo sardo », scrive la Deledda; ed è « sete del piacere, del godimento, delle avventure »: ansia di vita. ★ ★ La Sardegna del « silenzio » e della « desolazione », quella realistica delle « strade polverose » e dell'« aria irrespirabile per l'odore delle immondezze », rimane ai margini della pagina scritta. Lo spazio isolano è invece nell'Edera ben aperto, respirabile a pieni polmoni. Ed è soprattutto uno spazio favoloso, che suggerisce mitiche lotte di titani, disperato ardore di vita: « Pareva che in un tempo remoto, nel tempo del caos, una lotta fosse avvenuta fra le rocce, e le une fossero riuscite a sopraffare le altre, ed ora le schiacciassero e si ergessero vittoriose sullo sfondo azzurro del cielo. E le macchie e le quercie, a loro volta, cessata la lotta delle pietre, avevano silenziosamente invaso i precipizi, s'erano arrampicate sulle rocce, avevano anch'esse cercato di salire le une più su dell'altre ». Così gli uomini che vivono in questo paesaggio, i vecchi che conoscono la vanità di una piccola ribellione, appaiono nelle pagine della Deledda come personaggi di leggenda. E si pensa ai due nonni Decherchi « che usavano star seduti fuori della porta di strada simili a due vecchi leoni vigilanti l'ingresso d'un palazzo incantato in rovina », oppure a donna Rachele «chiusa nel suo scialle nero come in un manto di dolore ». E si pensa soprattutto alla figura del messo (ahimè quanto meschino — al confronto — nella riduzione televisiva), che «col suo tamburo scintillante, col suo costume metà da paesano, metà da cacciatore, col suo berretto di pelo che pareva la capigliatura naturale di quella testa nera e forte », dava « l'idea di un araldo primitivo sceso giù dai boschi della montagna per annunziare qualche cosa di terribile ». Certo, non era obiettivamente facile tradurre in immagini tutto questo. Ma ciò non poteva costituire una scusa facile per fare dell'Edera un mediocre fotoromanzo d'evasione. Non sarebbe più onesto allora — evasione per evasione — rimanere ai soli romanzi di cappa e spada o ai fumettoni sentimentali, senza inventare falsi alibi culturali? Giorgio De Rienzo L'«Edera» appassita DELEDDA ALLA TV L'«Edera» appassita Non penso sia scortesia svelare il finale (televisivo) dell'Egra di Grazia Deledda, a quei pochi spettatori, coraggiosi, che ancora siano rimasti ieri sera davanti al piccolo schermo. Annesa non pagherà la pena dovuta al suo delitto. Anzi Paulu le proporrà il matrimonio; ma Annesa rinuncerà per sempre all'amante, per espiare così la propria duplice colpa: quella d'aver amato, lei «serva» il proprio «padrone», e quella d'aver ucciso il vecchio asmatico. Finisce in questo modo con logica assurda, l'assurda vicenda dell'Edera televisiva, sacrificando, per amore di un finale strappalacrime, ancora molte pagine del romanzo. E legittimamente ci si può chiedere quale sarà il « sugo » che ne trarrà il telespettatore: perché avrà avuto pure un senso questo riproporre una storia del 1908, ai più — oggi — incomprensibile. Il regista Fina ha dichiarato di aver inteso offrire « attraver. so la televisione », una « rappresentazione » della Sardegna che superasse i « limiti imposti dal " clichet " della violenza ». E per questo — ha detto — si è « concesso alcune libertà di lettura, nel tentativo di restituire ai personaggi quanto era rimasto solo nei sentimenti della Deledda ». La battuta del regista Fina sembra un po' a quelle frasi ad effetto che con orgoglio abbiamo un po' tutti inserito alla fine di un nostro componimento ginnasiale, con la presunzione di aver detto chi sa che cosa. Bene; ma qual è questa Sardegna «diversa»? E' la Sardegna folkloristica delle nenie e dei canti, dei balletti e delle cantilene ecclesiastiche, delle pecore e delle barbe (incolte), che non si trova — assolutamente — nel romanzo scritto? Oppure è la Sardegna di un ipotetico e paradisiaco quieti smo sociale: in cui la « serva » Annesa sacrifica se stessa per difendere il patrimonio dei suoi « padroni » (che son chiamati però « benefattori ») fino all'autodistruzione? * ★ La televisione, nella sua mas siccia programmazione di ro manzi dell'Ottocento, ci ha or mai abituati a queste amene considerazioni. Se è vero — come ha affermato con orgo glio qualche dirigente — che proprio nello sceneggiato la televisione ha trovato il « suo » linguaggio culturale: è anche vero che questo « linguaggio » desta serie perplessità. La cultura per la tv è sonnifero per ogni velleità a star svegli, calmante all'inquietudine, è diversivo a qualsiasi curiosità. E non vale l'alibi degli indici di gradimento. Le statistiche della Rai ci diranno che hanno assistito all'Edera almeno quindici milioni di spettatori e re gistreranno (come è capitato per quasi tutti i teleromanzi) un indice di gradimento pari a quello fatto segnare per una finale di calcio nella Coppa dei Campioni. Certo, anche una modesta e insipida scaloppina nel menu di una corsia d'ospedale registrerebbe un alto indice di gradimento, da parte di tanti mutuati che son giunti a dimenticare il sapore di un'autentica bistecca. Né vale l'alibi della promo zione culturale: i librai non venderanno tante copie dell'Egra in queste settimane. La televisione invece ha reso un cattivo servizio a Grazia Deledda. Il romanzo non ha pochi limiti e soffre di troppe ipoteche ottocentesche. Paulu è un altro eroe negativo dell'indolenza borghese dell'800 « dal viso fine e pallido, dagli occhi melanconici di donna ». « Cavaliere spiantato » e « ricco ispassiosu », impreca contro la sorte per la rovina della propria casa e va cercando in giro per la Sardegna i denari per salvarla, senza nemmeno pensare che i soldi qualche volta si guadagnano anche lavorando. E la « serva » Annesa ha in sé un eroismo troppo meccanico, e una considerazione così avvilente della propria dignità (si paragona ad uno « straccio » gettato nella via da una « maschera ubriaca »), che scatenerà i fulmini di una femminista pur moderata, ma che potrà irritare e offendere anhe il buon senso. Al di là di questi limiti vistosi l'Edera ha tuttavia qual-cosa di grande da offrire al lettore. Ed è proprio l'immagine di una Sardegna « diversa », che non è però quella folkloristica, né quella rassegnata all'ingiustizia sociale dello sceneggiato. E' invece l'immagine di una Sardegna che si pone, consapevolmente e polemicamente, al di fuori della storia: in uno spazio di favola, in un tempo mitico. C'è una « arcana nostalgia » nel « carattere del popolo sardo », scrive la Deledda; ed è « sete del piacere, del godimento, delle avventure »: ansia di vita. ★ ★ La Sardegna del « silenzio » e della « desolazione », quella realistica delle « strade polverose » e dell'« aria irrespirabile per l'odore delle immondezze », rimane ai margini della pagina scritta. Lo spazio isolano è invece nell'Edera ben aperto, respirabile a pieni polmoni. Ed è soprattutto uno spazio favoloso, che suggerisce mitiche lotte di titani, disperato ardore di vita: « Pareva che in un tempo remoto, nel tempo del caos, una lotta fosse avvenuta fra le rocce, e le une fossero riuscite a sopraffare le altre, ed ora le schiacciassero e si ergessero vittoriose sullo sfondo azzurro del cielo. E le macchie e le quercie, a loro volta, cessata la lotta delle pietre, avevano silenziosamente invaso i precipizi, s'erano arrampicate sulle rocce, avevano anch'esse cercato di salire le une più su dell'altre ». Così gli uomini che vivono in questo paesaggio, i vecchi che conoscono la vanità di una piccola ribellione, appaiono nelle pagine della Deledda come personaggi di leggenda. E si pensa ai due nonni Decherchi « che usavano star seduti fuori della porta di strada simili a due vecchi leoni vigilanti l'ingresso d'un palazzo incantato in rovina », oppure a donna Rachele «chiusa nel suo scialle nero come in un manto di dolore ». E si pensa soprattutto alla figura del messo (ahimè quanto meschino — al confronto — nella riduzione televisiva), che «col suo tamburo scintillante, col suo costume metà da paesano, metà da cacciatore, col suo berretto di pelo che pareva la capigliatura naturale di quella testa nera e forte », dava « l'idea di un araldo primitivo sceso giù dai boschi della montagna per annunziare qualche cosa di terribile ». Certo, non era obiettivamente facile tradurre in immagini tutto questo. Ma ciò non poteva costituire una scusa facile per fare dell'Edera un mediocre fotoromanzo d'evasione. Non sarebbe più onesto allora — evasione per evasione — rimanere ai soli romanzi di cappa e spada o ai fumettoni sentimentali, senza inventare falsi alibi culturali? Giorgio De Rienzo

Persone citate: Deledda, Edera, Giorgio De Rienzo, Grazia Deledda

Luoghi citati: Sardegna