Quelli del "fronte interno, di Andrea Barbato

Quelli del "fronte interno, SCELTA URGENTE E DIFFICILE PER ISRAELE Quelli del "fronte interno, A Gerusalemme si colgono tutte le idee e profezie: la maggior parte dei palestinesi è per la repubblica, inclusa la Giordania (Dal nostro inviato speciale) Gerusalemme, febbraio. Chi parla a nome dei palestinesi? Le organiszazioni di guerriglia sono in esilio, i vecchi notabili sono sospettati di nostalgie monarchiche, i nuovi dirigenti municipali sono eletti con leggi giordane ma sotto il controllo dell'amministrazione israeliana. Eppure, una voce si sta formando, sia pure talvolta ancora aspra. Dopo i rifugiati della Samaria, andiamo ad ascoltare gli intellettuali più politicizzati di Gerusalemme, i giornalisti del « sottosuolo » arabo, ì notabili. Troviamo opinioni più radicali, taglienti, senza la nostalgia della terra. In questa città, si traversa un confine invisibile e, nelle viuzze dei quartieri arabi, si trovano i palestinesi del « fronte interno ». I ceti intermedi sono quelli che hanno perduto di più, con l'occupazione militare israeliana; non hanno più potere né privilegi, e non hanno neppure la consolazione di un salario mìgliore. L'autorità delle grandi famiglie, che Hussein astutamente avvicendava nelle cariche statali del suo regno, si è dissolta; l'impopolarità della Giordania presso i palestinesi ha travolto il prestigio degli antichi funzionari. Chi spera ancora in una riunione delle due rive del Giordano sotto la dinastia hascemita, lo confessa malvolentieri, preferisce non rivelare u proprio nome. Ali Khatib, l'anziano direttore politico del quotidiano Al Shaab, cioè « il popolo », espone idee e profezie che sono la punta estrema del ventaglio politico palestinese. Il suo è uno dei due quotidiani arabi di Israele, sempre in lotta con la censura. «Sì, è vero — ammette —, siamo più liberi oggi, critichiamo Israele più di quanto prima potes Simo criticare la Giordania. Ma questa è solo la masche- ra della democrazia. Mi lasciano scrivere ciò che voglio su Golda Meir, ma intanto imprigionano i nuo' fratelli. E' vero, abbiamo più libertà noi dei giornali della riva Est: io di questa libertà ne faccio uso, ma non mi lascio convincere. Dal mio Paese, dallo Stato al quale appartengo, accetto imposizioni che non tollero da una potenza occupante ». Poche centinaia di metri più in là, nella città vecchia addossata alle mura, l'aurora palestinese sorge in uno scantinato. In due stanze nascoste, dove si pigiano la rotativa e le scrivanie, sì stampa Al Fajr, l'aurora, appunto. E' qui che abbiamo incontrato il proprietario, Yusuf Nasr, pochi giorni prima della sua misteriosa sparizione. Da qualche tempo, Nasr è introvabile, la polizia israeliana suggerisce l'ipotesi di un duello tra fazioni palestinesi, i palestinesi parlano di un ratto politico. Quella sera Nasr, un giovane cordiale, accusava scherzosamente il suo direttore, Jamil Hamed. « Ogni tanto mi manda in prigione, perché con quel che scrive va a caccia di guai ». Meno di un anno fa, dopo il raid di Beirut, il giornale fu chiuso, e i due rimasero in cella un paio di settimane: avevano scritto che l'operazione era stata concordata fra i servizi segreti di Beirut e di Gerusalemme. Ma ora stampano di nuovo, e anzi avrebbero dovuto trasformarsi in quotidiano, se Nasr non fosse scomparso. « Nemmeno gli inglesi — dice Hamed — avevano preso le nostre terre, o avevano preteso di avere diritti sulla nostra patria. In Cisgiordania non si vedono soldati? Ma un'occupazione si fa anche senza carri armati. L'economia è più prospera di prima? Ma una buona economia non è un buon motivo per un'occupazione militare. Re Hussein? Non 10 vuole nessuno, si illude se pensa di poterci sfruttare di nuovo. Le grandi famiglie? Nessuno le ascolta più. Solo le organizzazioni ci rappresentano. Se ci offrono di andare a Ginevra, ci andremo, se no sarà lo stesso. L'occupazione è già un fallimento, la sua strategia era quella di deprimerci, ma ha ottenuto il risultato opposto. Gli israeliani ci ripetono ogni giorno: non c'è speranza per voi, fate meglio ad andarvene. Ma ormai hanno capito che non ce ne andremo mai. Saranno loro a dover andar via, invece. Fin dove? La riva occidentale e Gaza non bastano, chiederemo anche il resto... ». L'opinione di Mahmud Zellef è più moderata e realìstica. E' il proprietario e direttore del quotidiano più diffuso, Al Quds, che in arabo significa « la santa », cioè Gerusalemme. Con un cambio di testata (prima sì chiamava « La guerra santa »), il quotidiano è sopravvissuto all'occupazione dì Gerusalemme. « Gli israeliani — dice Zellef — hanno capito che non possono vivere in questa parte del mondo senza essere in pace con gli arabi. L'occupazione è un peso, se fossi israeliano accetterei subito la pace ad ogni prezzo. Se invece vogliamo lasciare la parola agli estremista, allora ce ne sono in abbondanza da una parte e dall'altra. La pace non è la fine per Israele, è il principio. Se vogliono vivere separati, allora davvero rischiano di tornare sulle navi, in mare. Tornino al di là dei confini, e ci lascino scegliere ». Ma cosa accadrà dopo? La guerra d'ottobre ha riacceso le speranze, ridato coraggio. Ma cosa si chiederà? E chi parlerà a nome dei palestinesi? « E' vero, non siamo uniti — ammette Zellef —. I Paesi arabi insistono perché sia l'Olp a rappresentarci. Ma i guerriglieri esuli dovranno prima guadagnarsi una delega, un mandato, dalla popolazione della riva Ovest. Possiamo scegliere fra l'autonomia e una federazione con la Giordania: chi vuole di più deve farsi avanti ». Saliamo in casa di un notabile, forse il più illustre fra quanti sono rimasti nella Gerusalemme isTxliana E' un ex ministro o.el regno giordano, ma la cautela gli suggerisce di chiederci che 11 suo nome rimanga sepolto nei nostri appunti. Lo finestra s'affaccia su un giardino alberato, i servì portano caffè in tazzine di porcellana pregiata. « L'avvenire mi preoccupa — dice — perché non siamo preparati. Anni di occupazione e di separazione non ci hanno permesso di costruire uno Stato. Gli esuli non conoscono la riva Ovest, e la gente della riva Ovest ha sentito nominare quei capi solo alla radio, ma non li ha mai visti. Non possiamo riunirci, né parlare fra noi, né confrontare le nostre idee. Immaginiamo uno Stato, ma non sappiamo che forma dovrebbe avere, o come potrebbe convivere accanto a Israele dopo una storia di rancore che comincia nel 1917. Eppure, non possiamo aspettare. L'unica soluzione è un periodo di neutralità e di internazionalizzazione: cinque, dieci anni al massimo. No, non con l'Onu, non vogliamo altri soldati in casa nostra. In quegli anni, con uno statuto internazionale che ci garantisca, potremo capire cosa vogliamo fare di questa vallata, selezionare una classe dirigente che non sia fatta solo di profughi o di guerriglieri... ». Non si lascia sfuggire neppure un accenno di rimpianto al passato: anzi. Husseinaveva certo le sue colpe, per esempio non ha mai costruito un'università al di qua del Giordano, ha preferito Amman a Gerusalemme. Ma la repubblica di Arafat lo escinde, lo spaventa. «Arafat? I contadini di Nablus o di Hebron sanno appena chi sia, non si può passare all'improvviso dal feudalesimo alla rivoluzione... ». Ma per Ali Khatib di Al Shaab, non c'è bisogno di aspettare. « Chi vive qui da anni non ha bisogno di elezioni né di sondaggi, sa cosa vogliono i palestinesi. Pochi, cinque per cento, vogliono la federazione con la Giordania, ma anche quei pochi mettono come condizione che il regime giordano sia cambiato, e che il re se ne vada. Ancora meno sono quelli che vogliono un piccolo Stato autonomo, un po' di Samaria, un po' di Giudea, un po' di Gaza. Sono quelli che vogliono compiacere Israele, per loro Tel Aviv o Amman sono la stessa cosa. Tutti gli altri credono solo nelle loro organizzazioni politiche, e molti diffidano anche di Arafat e delle sue proposte. Uno Stato democratico accanto a Israele? Ma diventerebbe subito uno Stato fantoccio, di facile dominio per Israele. La nostra tesi, di noi che siamo la maggioranza, è questa: la Giordania non esiste, è nata artificialmente con la fine del Mandato inglese, va cancellata. Lo Stato palestinese, dopo la guerra d'ottobre, dev'essere una repubblica con i confini del '47, ma che includa la Giordania, e che confini a Nord con la Siria e a Sud con l'Egitto ». Ogni sera, Khatib scrive articoli ardenti, in una prosa profetica, sonora. E va a farli leggere ad un preoccupato censore israeliano. Era un funzionario dì censura anche lui, Khatib, nell'amministrazione giordana. I due si scrutano, duellano in silenzio. Stasera, Khatib ha perduto, l'articolo di fondo non esiste più, non è rimasta che una frase monca. Cosa aveva scritto? Che 700 detenuti di Bersheba, che da sette mesi rifiutano di lavorare in carcere, si sono visti negare le visite dei parenti. « Avevo scritto: rilasciateli, come prova di buona volontà. Il censore ha preso la matita e ha tirato un frego sul foglio. Non vogliono che queste cose si sappiano, ma tutti le sappiamo: sappiamo che ci sono 4000 prigionieri politici in Israele, anche se non possiamo scriverlo. Loro cantano "Shalom", pace, ma noi ci sentiamo come i pellirosse in America. In sette anni hanno espulso 1500 di noi, e altri a migliaia erano fuggiti durante le guerre. E chi viene la notte a cacciarci dalle nostre case?». Khatig s'infiamma. « L'uomo che bussa alla mia porta è appena arrivato dalla Polonia, dalla Russia, dalla Germania! ». Pochi giorni fa, il giornale è stato svaligiato, ì cassetti svuotati, le macchine bruciate. Khatib ha protestato, accusato, poi s'è rimesso a scrivere articoli che spesso leggono solo due persone, lui e il suo censore. Ma il giornale esce, si vende fin sulla riva del Giordano, passa clandestino lungo i ponti. «Faremo ciò che ci diranno le organizzazioni. Ormai, la soluzione è vicina, lo status quo non è più possibile. La storia si ripete, come è finito il regno dei Crociati finirà il regno di Israele in Palestina. Abbiamo un apparato, una classe politica. Da ottobre, sappiamo che gli arabi possono anche vincere una guerra, essere uniti, . usare il petrolio come un'arma. Ormai, sono sicuro dell'avvenire dei miei figli ». Va a scrivere un articolo per riempire lo spazio bianco. Fuori, Gerusalemme è gelida, tira un vento di neve. Andrea Barbato Gaza. Un soldato israeliano nel mercato arabo (Foto Cagnoni - Grazia Neri)