Le ballerine senza scuola

Le ballerine senza scuola I problemi della danza Le ballerine senza scuola Ai corsi della Scala e di altri tre Enti lirici a Roma, Napoli e Palermo accedono soltanto poche decine di allievi ogni anno (Dal nostro inviato speciale) Milano, 25 febbraio. «Se non ci fosse stata la Scala — dice Carla Fracci — oggi sarei soltanto una brava parrucchiera per signora». Non che la Fracci abbia mai esercitato questo mestiere, ma era quello che le sarebbe piaciuto fare «da grande» come vanno fantasticando i bambini. E lei bambina era davvero: «Sono arrivata alla Scala senza sapere che cosa fosse il teatro e il balletto, conoscevo solamente un po' la musica». In altre parole: l'Accademia, della quale abbiamo già parlato, sarà anche un'eccellente istituzione, ma è unica e sta a Roma. Per chi non dispone di mezzi, come non ne disponevano allora i genitori della Fracci, la danza rischia di rimanere un bel sogno. Ma a Milano, c'è la scuola di ballo del Teatro alla Scala: è gratuita e chi la frequenta con profitto può uscirne ballerina già formata. Parliamo della Scala perché, senza far torto a nessuno, la sua scuola è la più importante, e con quella del Teatro San Carlo (sono entrambi del 1813) la più antica delle quattro tenute in Italia dagli Enti Urici: oltre alla Scala e al San Carlo di Napoli, l'Opera di Roma e il Massimo di Palermo. E il discorso può valere anche per questi. Ma le altre città? Qualcosa fanno, quando lo fanno, ma poco e male. In generale si disinteressano della danza, ancora tanto che lascino vivacchiare i loro corpi di ballo (si fa per dire: dodici, quindici elementi, e basta). E tuttavia la Scala, come gli altri tre succitati enti lirici, non soddisfa davvero il desiderio, e si dovrebbe dire la fame, d'imparare la danza che si è diffuso da qualche anno in Italia e non accenna a diminuire. Non lo soddisfa perché le strutture, tutte le strutture, sono ormai inadeguate: gli stanziamenti sono insufficienti, manca un'organica disciplina legislativa, la scuola è, anche materialmente, allo stretto, e non può accogliere ogni anno più di trenta-trentadue allievi (la Scala accetta anche i maschi), dei quali nemmeno un quarto conclude l'intero corso. Questo comprende, oltre all'insegnamento della danza e delle materie complementari, la scuola d'obbligo per tutti, terminata la quale l'allievo 0 l'alHeva che voglia continuare gli studi per conto proprio è costretto a un duro lavoro e a una doppia fatica. I primi a rendersi conto del problema e delle sue difficoltà, e a studiare ed approntare 1 mezzi per risolverle, sono il sovraintendente Grassi e il direttore artistico, maestro Bogiankino: «La scuola — essi dicono — ha un'antica e gloriosa tradizione che vogliamo rivitalizzare». Ma come? Oltre a tutto, una scuola di ballo degna di questo nome non può avere il deserto intorno a sé. E quindi i suoi problemi sono strettamente connessi a quelli dell'esistenza e del rafforzamento del corpo di ballo: «Fin dal 1972 — ricorda ancora Grassi menzionando gli sforzi compiuti dalla Scala in questo settore — abbiamo chiamato l'inglese John Field a direttore di un balletto che ha già, attualmente, ottanta elementi fissi». Scuola e corpo di ballo s'integrano perciò a vicenda e questo viene ad essere la naturale continuazione di quella: gli alUevi degli ultimi corsi, ad esempio, compiono un'attiva pratica di palcoscenico prendendo parte agli spettacoli dei cartellone, d'altro canto le esperienze che ì migliori acquisiscono al Bolscioi (con il teatro moscovita, che manda a perfezionarsi a Milano i suoi giovani cantanti, la Scala ha un accordo di scambi) vengono poi utili sia alla scuola sia allo stesso balletto. Del resto, la Scala non è collegata soltanto con il Bolscioi: «Abbiamo stabilito un rapporto organico — spiega Paolo Grassi — anche con Béjart e il suo Ballet du XX siede». Così il discorso, come è giusto, finisce col trasferirsi dalla Scala-scuola alla Scala-balletto e nello stesso tempo con l'allargarsi, con poche varianti, a tutte le scuole e a tutti i corpi di ballo degli Enti lirici che alla danza dedicano qualche attenzione. E coinvolge altri problemi: da quello degli organici e del contratto nazionale («un contratto avanzato sul piano artistico — osserva Grassi — ma che non è facile armonizzare con il contratto di altri settori, masse corali e orchestrali, tecnici e così via, per quanto riguarda, ad esempio, gli orari, le prove, ì riposi») ai problemi del repertorio. A proposito del repertorio, tutti sono abbastanza concordi nel ritenerlo in crisi: da una parte non si può vivere soltanto di Laghi e Schiaccianoci, dall'altra i musicisti d'oggi sembrano restii a comporre balletti originali come, ancora non molti anni fa, facevano da noi un Petrassi o un Dallapiccola. Qui interviene, e conclude, ancora la Fracci sostenendo che qualcosa di nuovo si può sempre trovare, ed è il caso del Fiore di pietra da lei portato in trionfale tournée per l'EmiliaRomagna, oppure si può chiedere a un compositore di scrivere la musica per balletti tratti da opere teatrali o letterarie che originariamente non avevano nulla da spartire con la danza. E sarà allora il caso del Gabbiano cecoviano musicato da Vlad o dei Promessi Sposi che la Fracci e il suo gruppo hanno in animo da tempo di portare sulle scene, ridotto a balletto con la musica di Hazon. Alberto Blandi