L'incognita dell'Urss

L'incognita dell'Urss SI CONCLUDE L'INCHIESTA SULL'ALTRO COMUNISMO L'incognita dell'Urss Nell'Europa Orientale esistono premesse per un diverso modello socialista; ma occorre un salto di generazione e un mutamento dentro la "grande madre russa" (Dal nostro inviato speciale) Praga, febbraio. A quasi sei anni dall'invasione russa della Cecoslovacchia, e a oltre tre dalla repressione poliziesca delle sommosse in Polonia, che cosa si può dire dell'evoluzione comunista nell'Europa orientale? Si è già configurato — si configurerà. — un modello di socialismo diverso da quello dell'Unione Sovietica, ormai ingiustificabile anche storicamente? Fino a che punto è cambiata la condizione civile, oltre che economica, dei Paesi controllati da Mosca? E la logica di questo controllo è reversìbile, o almeno modificabile, dopo i cambiamenti, interni ed esterni, degli Anni Settanta? Un'inchiesta svolta attraverso tre sole capitali comuniste, sia pure le più indicative (Budapest, Varsavia, Praga), non può fornire risposte esaurienti a ogni interrogativo. E' tuttavia sufficiente per accertare se vi siano o no nuove e comuni tendenze di fondo, quali fermenti e quali travagli agitino un mondo che a noi occidentali appare ancora come un grigio monolito. Senza dubbio, la caccia al benessere è oggi la principale caratteristica esteriore dei regimi comunisti europei. Un decennio dopo Kruscev, il gulash socialism, il socialismo del burro coi cannoni, è diventato il punto fermo della loro strate- già. Non esiste la prosperità, sebbene l'attuale crisi occidentale ingigantisca — erroneamente — i progressi ottenuti dal potere; ma s'incomincia a stare meglio, e parlare di consumi non è più un'eresia. Il benessere viene inseguito sui binari delia rivoluzione tecnologica e della riforma di gestione: di qui l'acquisto di macchinari, know how e sistemi manageriali francesi e americani, l'enfasi sugli aumenti di produttività anziché di produzione, il rinnovamento dei quadri a scapito degli apparatdki e a favore dei tecnocrati. Occorre tuttavia distinguere tra Paese e Paese e tra mezzi e fini. Mentre la Polonia e soprattutto l'Ungheria si ispirano « a un tipo nuovo di sviluppo sociale ed economico », come mi ha detto il consigliere alla programmazione Raczkowskì, cioè mentre esse promuovono il « difficile connubio tra li piano e il mercato », in Cecoslovacchia l'operazione prosperità è poco più che una plastica facciale. Dalle teorie di Oscar Lange e di Joszef Bognar sono nate a Budapest e Varsavia forme inortodosse di conduzione dell'azienda. A Praga, invece, vige ancora il dirigismo staliniano. Neppure a Budapest o a Varsavia, d'altronde, i cauti tentativi di recupero di una dimensione imprenditoriale rappresentano un preludio al liberismo: l'apertura alla collaborazione e ai commerci occidentali è destinata al consolidamento del regime, non a una fatale scossa delle sue strutture. Un altro aspetto appariscente dell'evoluzione comunista nell'Europa dell'Est è la ricerca della concordia nazionale. Il « chi non è contro di noi è con noi » di Janos Kadar ha fatto scuola. Edward Gierek ha superato il trauma del '70 riconciliandosi parzialmente con gli operai, coi contadini, con gl'intellettuali e con la Chiesa. Persino Gustav Husak, sebbene ostacolato dai dogmatici come Vasil Bilak, favorisce la polìtica della mano tesa. La ricerca di concordia è agevolata dalla distensione internazionale, dalla soluzione del problema tedesco, dall'intesa tra l'U- ione Sovietica e l'Americ dalla gravità dei problei.H «transideologici», il disarmo, le fonti d'energia, l'inquinamento, il sistema monetario. « Speriamo » mi hanno detto molti « che la ritirata dalla coesistenza non sia più possiDile ». Tale fenomeno, più ancora di quello economico, ha tuttavia limiti assai rigidi. Appena la dittatura del partito (dove sì realizza quella del proletariato?) è in pericolo, scattano i dispositivi di sicurezza. A Budapest, gl'ideologi dissidenti come Hegedus e quanti si richiamano alle sfortunate democrazie popolari dell'immediato dopoguerra vengono emarginati dai potere. Da Varsavia, i protagonisti dell'insurrezione baltica come Edmund Baluka, il presidente del comitato in sciopero dei portuali di Stettino nel '70, sono costretti a rifugiarsi all'estero. A Praga il carcere è sempre il mezzo correttivo degli errori, infuria una repressione culturale ancora più rigida di quella moscovita. Il terzo dato visibile del socialismo dell'Europa orientale è il protrarsi delle tensioni tra i sentimenti nazionali e l'egemonia sovietica. A un quarto di secolo dalla satellizzazione, il conflitto è sempre insoluto. L'ortodossia non ha attutito né tradizioni né travagli, e anzi essa sì colora in modo diverso a seconda dei Paesi. Come due secoli fa, l'uomo della strada ungherese diffida del cecoslovacco e viceversa, ed entrambi considerano i russi innanzitutto forze di occupazione. Una sorta di neoirredentismo affiora specialmente nei giovani, siano i simpatizzanti della nuova sinistra a Budapest o gli ultimi esponenti della « primavera » a Praga. Gli stessi regimi ammettono che spesso in essi l'eredità civile austroungarica o mitteleuropea è più radicata della dottrina del partito. Un decennio dopo Kruscev, la prospettiva di un altro comunismo potrebbe, dovrebbe essere più sicura e confortante. L'età di Kruscev non fu soltanto quella dell'invasione dell'Ungheria e del volontarismo, ma anche quella della rottura degli schemi staliniani e dell'attacco alla burocrazia. L'età di Breznev, pur nella spietata condanna del '68 cecoslovacco, ha portato a una politica estera più responsabile e meno avventurosa, ma ha stroncato gli slanci endogeni ed embrionali (chi non ricorda i sogni polacchi a cavallo del '60?). Nell'Est europeo non scarseggiano più gli alimentari, si ambisce all'eleganza, vie¬ ne preannunciata la civiltà dell'automobile, s'intravede la fine della coabitazione. Circola qualche libro o qualche pellìcola occidentale. Materialmente, si respira. Ma non è stato uno scrittore sovietico ad affermare che « non si vive di solo pane »? Certamente oggi, a differenza dì un decennio fa, esistono alcune premesse per un diverso modello socialista. Ma perché esse sfocino in qualcosa di concreto, è necessario che si compia un salto dì generazione e che muti « la grande madre russa». In Ungheria, in Polonia, in Cecoslovacchia sono ancora al potere uomini cresciuti sotto Stalin, di oltre sessant'anni. Alle spalle, premono uomini più giovani, tra i quaranta e i cinquanta, ed è su di loro che le popolazioni dell'Europa orientale riversano le proprie speranze. Quanto alla Russia, essa è la vera incognita. Nonostante tutto, ha fatto notevoli passi avanti, in ogni campo, rispetto all'epoca di Stalin. Ma fino a che punto accetterebbe le « nuove frontiere » dì un altro comunismo? Forse, Praga non è il luogo più adatto per trarre un bilancio sereno di un viaggio in questa Europa semisconosciuta. La logica socialista non presenta qui il suo volto migliore. Ma sarebbe egualmente errato formulare giudizi nella gaia Budapest, al suono delle csardas. Un viaggio in una realtà tanto estranea alla nostra occidentale è forzatamente contraddittorio. Si può dire con eguale buona fede che in essa vi sono un certo prammatismo, una profonda ansia di legittimazione, una presa di coscienza politica, anche un rifiuto incipiente del dogma; e che vi sono la paura della libera circolazione delle idee, l'ostilità alla partecipazione popolare alla gestione pubblica, l'ossessione del complotto capitalista e borghese. Le impressioni più vive sono quelle di Praga, una città tanto bella quanto triste, tanto orgogliosa della propria storia quanto disamorata del proprio futuro. Ammantata di neve, con molti ristoranti e i negozi chiusi, la domenica mattina essa assume un aspetto fiabesco. Gruppi dì giovani fanno commercio di dischi usati in un angolo di piazza San Venceslao, sotto le stelle rosse dei lampioni; altri lo fanno di pezzi di ricambio d'automobile, procuratisi ch'rsà come, nelle viuzze della Piaz- ' za Vecchia. A mezzogiorno, una piccola folla si raduna davanti al campanile, dov'è scritto caput mundi, per vederne uscire le statue di legno degli apostoli, una per rintocco. Nel parco, presso il castello, oltre il fiume, padri e madri portano i figli a passeggio, e non si sente il minimo rumore. Mi sono trovato, in questo parco, a una riunione di ex-combattenti dell'ultima guerra mondiale. C'era il coro d'una scolaresca, bambini e bambine di undici, dodici anni, in uniforme e coi distintivi dei «pionieri» comunisti. Alla televisione, accesa, trasmettevano la telecronaca diretta di una partita di hockey su ghiaccio tra la Cecoslovacchia e l'Urss. Nessuno l'ha guardata, neppure per un attimo. Il coro cantava canzoni folcloristiche, patriottiche: i vecchi avevano gli occhi lucidi. Cinque anni fa, per una partita analoga, Praga aveva sfiorato la rivolta. Ora si rifugia nei ricordi e nella rassegnazione. Aspetta, perché nel comunismo impostole dai carri armati russi non può fare altro. Ennio Coretto Praga. Scendendo, mano nella mano, in piazza San Venceslao (Foto Grazia Neri)