Nablus, città di profughi

Nablus, città di profughi ISRAELE DI FRONTE AD UNA SCELTA URGENTE E DIFFICILE Nablus, città di profughi L'occupazione israeliana è quasi invisibile nelle "zone amministrate", mai formalmente annesse: municipalità e consigli rurali sono eletti dal voto locale, la burocrazia militare di Tel Aviv è scarsa - Ma la presenza dei vincitori del 1967 non è riuscita a diventare una coesistenza - Tra rancori e rimpianti, la maggioranza dei palestinesi sogna di tornare nelle sue case, cerca un'anima e una nazione: "Qui c'è posto per un nostro Stato" (Dal nostro inviato speciale) Nablus, febbraio. Il campo numero uno dell'Unrwa, a Nablus, è appoggiato ad un canalone di ghiaia giallastra, una delle tante gobbe dell'arida Samaria. Casupole e baracche sono costruite con quella pietra opaca, aggrappate al monte dove le capre cercano erba fra i sassi. I bambini invadono a frotte le stradine fangose, o coprono di disegni le pareti della scuola. Dalle finestre sconnesse dell'aula, viene un coro di ragazzi, una melodia triste. Le parole dicono: « Non ci sono differenze fra noi, né di idee né di religione... Siamo tutti arabi, dall'Egitto alila Giordania, dalla Siria all'Irak...». Il nome della Palestina, in questa lista, è assente. Siamo venuti ad ascoltare i palestinesi delle terre occupate da Israele, i senza patria. Sono gli abitanti delle « zone amministrate », che Israele non ha mai formalmente annesso. Le loro parole sono aspre, il cronista raccoglie un documento di nostalgia e di rancore, la fotografia di un'utopia nazionale che sta forse diventando realtà. I vecchi piantano limoni nei minuscoli cortili, « per ricordare i tempi quando la Palestina era un giardino fiorito »: la favola del passato spesso non ha connotati storici, ma la vita nel campo è dura. « Sebbene sia una città di profughi », dice Yusuf Rida, il funzionario arabo delle Nazioni Unite che è responsabile dell'intera zona, «non c'è posto per tutti quelli che vorrebbero abitarvi. In sette campi del distretto, vivono 40.000 rifugiati; altri 80.000 devono pagare gli affitti in città, o arrangiarsi in campagna ». Le cifre si ripetono lungo tutta la riva occidentale del fiume Giordano: 283.000 profughi, di cui 75 mila hanno trovato spazio nei campi. Voto locale Dalla piccola torre verde che s'alza fra le case, viene ogni tanto la voce che invita alla preghiera. Anche qui a Nablus, l'occupazione israeliana è quasi invisibile. Passano rari camion dell'esercito, qualche macchina della polizia pattuglia lentamente la città. Municipalità e consigli rurali sono eletti dal voto locale, la burocrazia militare israeliana è scarsa, poche centinaia di persone in 6000 chilometri quadrati. Ma la presenza dei vincitori del 1967 non è riuscita a diventare una coesistenza. « E' una forma diversa d'occupazione », ci dice il dottor Kilani, un medico di Nablus che negli Anni Cinquanta, con altri cinque studenti, viaggiò con Yassir Arafat in molti paesi europei per illustrare la causa palestinese: allora, nessuno li conosceva, li arrestavano dovunque, perfino nelle nazioni socialiste. « Si vuole creare una situazione psicologica per spingerci ad andare via, per rendere la nostra permanenza impossibile ». Sorprende scoprire qui quanto quest'idea sia diffusa, mentre Israele continua a dibattere al suo interno da sette anni sul futuro delle zone occupate. Prima dell'alba, i ragazzi vanno spesso a raccogliere arance negli agrumeti delle valli vicine. Poi, dopo la scuola, gli stessi ragazzi si chiudono nelle casupole, e a due a due infilano cannucce di paglia lungo una trec¬ cia. Fabbricano così due stuoie al mese, per venderle al mercato. Intorno, i più anziani ripetono le loro amare memorie: quando dovettero lasciare case e terre, e fuggirono di notte, nel 1948. Qui, le intricate radici del problema palestinese si semplificano nel rancore e nel rimpianto: non c'è né un prima né un dopo, c'è solo il momento in cui persero la casa. Dopo il '67, qualcuno è potuto tornare a rivedere il suo villaggio, ma da estraneo, e il ricordo di quell'esperienza brucia. « Sono andata ad Accra con i miei figli — racconta Raymonde Tamil, una giovane maestra di francese —, e nella casa dove sono nata ho trovato una galleria di quadri, e abbiamo dovuto pagare il biglietto per entrare ». Altri hanno sempre rifiutato di tornare indietro, per non vedere le loro terre in mano altrui. Uno di loro chiama i suoi cinque figli, e a ciascuno chiede di dove siano. «Di Yazur, di Yazur », rispondono tutti. « Ecco, vede? Sono nati tutti a Nablus, e Yazur non l'hanno mai vista. Ma noi li educhiamo cosi, perche non dimentichino da dove vengono ». Ci portano a vedere spazi vuoti, cumuli di macerie fra una casa e l'altra. Raccontano di notti insonni, quando le case furono sgombrate all'improvviso, e fatte saltare in aria: c'è anche questo volto, nell'occupazione militare, e occorre conoscerlo. Questi campi sono la retrovia d'una guerra, d'una battaglia non conclusa. Se le spiegazioni storiche degli israeliani sono note (la sicurezza, la difesa, il « collo di bottiglia » che divideva il Paese in due, le responsabilità arabe nel mantenere insoluto il problema), i palestinesi del campo di Nablus oppongono un'identica risposta: siamo sottomessi, cerchiamo un'anima e una nazione. La discussione storica non Ila presa, qui: alle pareti di ogni capanna, c'è un solo ritratto, quello di Nasser. Ne raduniamo alcuni, il maestro, il preside, il dottore, il funzionario delle Nazioni Unite, per tentare di capire come immaginano il futuro palestinese. Sono attenti, informati, nelle case le radio arabe non tacciono mai. Sono orgogliosi dell'arma del petrolio (v. Che fareste voi europei al nostro posto? », chiedono), condannano gli attentati nelle città europee. La guerra d'ottobre ha riacceso le speranze, alimentato l'idea nazionale, proprio perché è stata una « guerra d'altri ». Ma le accuse sono decise: « La prima condizione, indispensabile, è l'evacuazione di queste terre, poi decideremo da noi il nostro futuro. Non pretendiamo molto, niente di più di quello che la comunità mondiale ci ha sempre riconosciuto come diritto. Questa è terra nostra, togliendocela hanno sperato di toglierci identità. Ma quando ci fu l'esodo di massa, nel '48, gli israeliani possedevano solo il 7 per cento di questa terra, e anzi solo metà l'avevano comprata, e l'altra metà l'avevano avuta in regalo dagli inglesi. Siamo una nazione di sradicati, di esuli. Hanno tentato di integrarci, paghiamo le loro tasse, riscrivono i libri di scuola dei nostri figli, i comprano le nostre campagne con espedienti legali, e ci mandano i loro coloni ». Lavoro e guadagno Israele oppone delle cifre. Dice che ora, rispetto ai 19 anni di regno hascemita, sulla riva occidentale del Giordano c'è più lavoro, ì salari sono più alti. Non c'è più disoccupazione, il prodotto è aumentato di quasi il 30 per cento l'anno, i campi coltivati sono raddoppiati. Dice che ora si può studiare, che la giustizia è ancora in mani arabe, che i medici sono più numerosi di prima. Ma i numeri qui perdono senso, il dibattito è un altro. « Non è solo questione di lavoro e di guadagno », dice il dottor Kìlani, «vorremmo tutti essere ancora più poveri, ma senza occu- I o I pazione militare. E poi, anche i conti non tornano: chi ora guadagna 20 lire israeliane al giorno, prima guadagnava mezzo dinaro giordano, ma con quella somma poteva comprare più cose. Il tempo è passato, nessuno è rimasto fermo, ci saremmo sviluppati comunque. Anche di là sulla riva Est, a Zarka o a Erbet, la gente sta meglio di sette anni fa. Noi ci andiamo, e lo vediamo. Si fanno strade, scuole, cliniche. Forse è vero, gli israeliani ci hanno insegnato a coltivare le fragole e il tabacco, a far nascere le primizie d'inverno. Ma cos'altro? Quando sono arrivati qui, nel '67, c'erano due ospedali non finiti, e non sono finiti ancora, non si è aggiunta una pietra. Uno, anzi, è diventato un comando di polizia. In sette anni non è stata costruita una scuola, a Nablus. L'Onu ci dà tre dollari al mese a testa e un sacco di farina, o poco più. I giovani che escono da scuola devono trovare lavoro altrove, non c'è più la distribuzione gratuita di medicinali ai più poveri, i sindacati non possono riunirsi, i lavoratori non hanno assicurazioni sociali... ». La Giordania La « nuova Palestina » è ancora più sognata che immaginata, è priva di contorni, disegnata negli animi anziché nelle mappe. E' quella del '48, con gli israeliani ricacciati verso il mare? Pochi sembrano crederlo, e perfino augurarselo. Si rimpiange il passato, la monarchia giordana? « No », rispondono tutti, « nessuno ha dimenticato gli anni in cui non ci veniva data nessuna libertà per timore che diventassimo più potenti dei Beduini dell'altra riva. E nessuno ha dimenticato le fosse comuni di Amman, il settembre nero. Ma chiedete a chiunque di noi: se fossimo costretti a scegliere fra il ritorno alla Giordania e i soldati israeliani in casa, sceglieremmo tutti la prima via ». Quello palestinese, è un «risorgimento» senza filosofi, senza partiti, senza ideologie sociali. « Ma anche senza sondaggi, né statistiche, sappiamo d'essere una grande maggioranza. Siamo cambiati: prima, volevamo tutta la nostra terra, ora siamo disposti a riconoscere i confini del '67, anche se questo costerà sacrifici a molti di noi. Cosi, non esistiamo. Siamo sudditi di tre leggi contemporaneamente; la legge giordana, la legge civile israeliana, e la legge dei governatori militari. Lasciarci le leggi giordane, è stato un modo per impedirci d'avere un'autentica rappresentanza; e così gli israeliani dicono che non sanno con chi parlare, che fra noi non c'è chi abbia delega o mandato ». Aggiunge Yusuf Rida: «Un giorno dopo l'altro, Israele ci toglie le nostre terre e ci spinge verso la Giordania. Palmo a palmo, spesso con trucchi giuridici, confisca case e campagne dicendo che sono necessarie alla sicurezza, per impiantarvi villaggi e comunità. Le sentenze dei tribunali sono sempre in loro favore. Bastava vivere pochi chilometri lontano dal¬ la propria casa, e non certo volontariamente, per essere definiti "proprietari assenti" e perdere ogni diritto. Da ventiseì anni molti di noi non ricevono un soldo per la propria casa, che è diventata un albergo o una fabbrica. Eppure, c'è una risoluzione dell'Onu, la 194, che impone il rimpatrio o il rimborso. Ci sospingono verso Est, verso la Giordania, per dimostrare che il popolo palestinese non esiste ». I ponti aperti Ma i ponti sono aperti, gli arabi traversano il Giordano nei due sensi a decine di migliaia... « Proprio i ponti aperti sono per noi una forma mascherata di annessione », rispondono. « Aprono i ponti per cercare di vuotare le terre. Sperano che l'economia di questa riva rimanga di transito, sì appoggi all'altra sponda, non diventi autonoma. Anche fra noi, certo, c'è chi li preferisce aperti: ognuno ha un parente di là. Ma i benefici sono tutti per Israele: attraverso di noi, commercia con la Giordania. Tutta la nostra economia è costretta a gravitare verso Est: il nostro sapone, la nostra frutta, i nostri fiammiferi, tutto attraversa il fiume ». Seicentocinquantamila arabi nella sola riva occidentale, dentro i confini di Israele? Anche gli israeliani si stanno rendendo conto che l'idea di una convivenza che si imponesse lentamente con la forza delle cose, è fallita. Gli incidenti gravi si sono fatti più rari, ma non sono scomparsi dalle cronache. Attentati, arresti, espulsioni, sono i sintomi di un'insofferenza, ma anche di una provvisorietà. Una notte del dicembre scorso, cinque palestinesi di Nablus furono prelevati dalle loro case, caricati su camionette militari, depositati in una vallata a Sud del Mar Morto. Per gli israeliani, erano « in contatto con i terroristi ». Ma i palestinesi dicono: « Uno di loro era il sindaco di un villaggio, c'erano fra loro un medico e un avvocato. Hanno cercato di rientrare attraverso i ponti per rivedere le famiglie, ma glielo hanno impedito. Abbiamo fatto uno sciopero, abbiamo chiu¬ so le scuole, ma è stato tutto inutile ». L'integrazione è un velo sottile, che l'ultima guerra e l'ultima pace hanno lacerato. Nablus è interamente araba, gli insediamenti israeliani sono lontani, protetti dalle colline. La terra contesa è poco più d'una steppa sassosa e ondulata, pochi nomi sacri alla storia, qualche rovina. Eppure, fra questi quieti contadini si capisce quanto sia debole l'argomento di chi dice che c'è spazio altrove, che il mondo arabo è grande e sconfinato. Israele si è mosso con cautela, indeciso se affermare la presenza con la speranza di consolidarla o se prepararsi ad andarsene. Ora si vuole costruire una grande strada che unisca Gerusalemme alla Galilea, lungo il tracciato di quello che potrà essere un futuro confine. E si è parlato di una città industriale in Samaria. Intanto, i palestinesi si sentono schiacciati tra un presente di occupazione militare, e un futuro che potrebbe essere imposto per ragioni politiche. « Molti di noi sono stati nelle prigioni giordane per anni, e ora il re vuole riprenderci, come richiamerebbe un gregge all'ovile » Si assiste fra queste colline alla nascita di una nazione sospinta per ora solo da una identità comune, da un comune rifiuto del presente. « Ma dopo la guerra siamo più ottimisti. Ora il mondo è più attento ai nostri problemi. Noi non ci siamo mossi in ottobre, gli eserciti che si scontravano non avevano la nostra bandiera. Ma a Ginevra dovremo esserci: senza il nostro consenso, non ci sarà soluzione. Nessuno può decidere per- noi. Qui c'è posto per uno Stato, per tre o quattro milioni di persone. I dirigenti li abbiamo, si sono formati in questi anni. Cosa farà Israele? Fino a che punto crede nella pace? E quale maggioranza di governo accetterà di restituire la Giudea e la Samaria al popolo che vi abita? ». Il problema palestinese ha mille facce e mille voci, torti e ragioni s'intrecciano nei libri di storia. Anche la voce caparbia dei profughi dì Nablus è un documento da registrare. Andrea Barbato Libano. Temendo attentati, la polizia accompagna un gruppo di profughi palestinesi nel campo appena lasciato (F. Neri)

Persone citate: Andrea Barbato, Kilani, Nasser, Yassir Arafat, Yusuf Rida