Il primo "Mondo,, di Mario Pannunzio

Il primo "Mondo,, NASCEVA 25 ANNI FA Il primo "Mondo,, 19 febbraio 1949: esce il primo numero del Mondo di Mario Pannunzio. Chi non aveva allora almeno vent'anni non può immaginare il senso di nuovo, quasi di svolta, che quel settimanale, aristocratico, controllato, allusivo, rappresentò per la generazione uscita dal travaglio della guerra e del dopoguerra. « No » a qualsiasi retorica; richiamo ai valori severi dell'Italia liberale e laica, ma proiettati in una dimensione nuova, quasi sospesi fra Croce e Salvemini. Il meglio dell'eleganza longanesiana, respirata da Pannunzio nell'esperienza, non sostituibile, di Omnibus; le vignette di Maccari che introducevano un gusto nuovo, una vena di caricatura e di dissacrazione dei potenti che nulla aveva di comune con le pesanti volgarità dei settimanali satirici degli anni precedenti, quasi ultimo residuo delVAsino. Un innesto fra politica e cultura, quale non si era ancor realizzato in nessuna delle prove giornalistiche del periodo post-bellico, pur caratterizzato dalla novità, tutta italiana, del rotocalco, del settimanale tipo Europeo, dovuto al fervore e all'inventiva di un altro allievo di Omnibus, di Arrigo Benedetti. La cultura universitaria, coi suoi Carlo Antoni, il diletto « pupillo » di Croce, lo studioso cui il maestro napoletano perdonerà perfino di insegnare « filosofia della storia », affiancata ai rappresentanti del nuovo giornalismo, agli scrittori più rappresentativi della nuova letteratura, da un Ennio Flaiano a un Vitaliano Brancati, che comincerà proprio in quel numero Il bell'Antonio. Tutte le rubriche al loro posto, vigilato e perfino immobile: niente di eccentrico o di stravagante, quasi la ricerca, anche tipografica, di una nuova classicità, vorremmo dire di un nuovo « rondismo » ma calato nella realtà viva dei problemi, disancorato da ogni residuo di arcadia o di accademica contemplazione, confrontato con le tensioni di una società nuova, cui non bastavano più gli approdi, o gli arrangiamenti, dell'immediato dopoguerra. Reazione al 18 aprile '48: certo. Anche sul piano politico la scelta del Mondo era chiara e precisa, contro le minacce dell'egemonia democristiana e, dietro, dell'integralismo cattolico. Era una scelta laica e di « terza forza », che partiva dalla matrice liberale (Pannunzio aveva diretto il Risorgimento liberale, facendone il più vivo e spregiudicato e intelligente fra i quotidiani di partito) in vista di aprire il dialogo con le forze repubblicane e socialdemocratiche, in vista di prospettare un'Italia né arresa alla maggioranza assoluta né indulgente .al nuovo « frontismo ». Un'Italia di minoranza: un'Italia aperta alle voci del dissenso, alla revisione di tanti miti tradizionali, al non conformismo, contro quelli che apparivano già — si rilegga il primo « taccuino » — i rischi di degenerazione clientelare del regime, i pericoli di deviazione oligarchica o di usurpazione monopolista. Riaprendo, venticinque anni dopo, il primo numero del Mondo, si ha la sensazione dei punti fermi cui il gruppo di Pannunzio non venne mai meno, pur nell'alternarsi delle vicende. Un europeismo, dichiarato e conseguente: il che equivaleva, negli anni '49, ad una scelta atlantica ed occidentalista senza ipocrisie e senza dissimulazioni. « Salvarsi »: è il titolo dell'articolo di Carlo Sforza che compare in prima pagina e cui Pannunzio fa seguire un sommario che una volta tanto esce quasi dallo stile icastico e distaccato del giornale, assume una vibrazione di calcolata drammaticità: « le sue parole suonano oggi come allarme per la salvezza comune ». Europeismo che si rinnova nella terza pagina, attraverso 10 scritto di Wilhelm Roepke, 11 grande economista liberale amico di Einaudi, « L'Europa in gabbia »: che è poi la gabbia dei protezionismi, delle superstiti e resistenti autarchie, dei privilegi o delle prelazioni di tipo socialista-collettivista. Altra nota che non sarà mai ammainata nei quasi vent'anni di questo settimanale inimitabile: la lotta al paternalismo dirigista, il « no >■■ alla ciarlataneria degli economisti-stregoni, il rigore di una moderna concezione deU''jconomia di mercato, non incompatibile poi con la scelta di centro-sinistra. Quella che sarà, in una parola, la linea La Malfa. Europeismo, economia di mercato, laicismo. Tre punti fissi che orienteranno le varie scelte, in tutto. Ma è un lai cismo che non si tinge di anti- clericalismo vecchio stile, che rifugge da pose gladiatorie. In quel primo numero è Silvio Negro, un cattolico fedelissimo alle sue montagne venete, un cattolico in cui è rimasto qualcosa di Pio X, che traccia un ritratto, pieno di simpatia e di calore umano, di Luigi Sturzo, il sacerdote «chiuso in casa », il prete antifascista cui Camera e Senato mandano tutti i giorni i loro disegni di legge: fenomeno eccezionale in un paese dominato dagli orecchianti e dagli improvvisatori, inclini a « deliberare senza conoscere ». E Sturzo, il sacerdote cui Pio XII rifiuterà anche una sola udienza dopo il ritorno dall'esilio, diventerà di 11 a poco collaboratore assiduo ed estroso e liberissimo del settima naie pannunziano; e proprio tre mesi più tardi, nel maggio del '49, avrà una polemica, non scevra di asprezze, con l'autore di queste note in merito al regionalismo « anti-risorgimentale » del partito popolare, alla vendetta guelfa contro lo Stato del 20 settembre. ★ ★ Sturzo, Einaudi, Croce, Salvemini, Sforza: i grandi nomi dell'antifascismo — che fu regola di vita per la comunità del Mondo, nel pari rifiuto di ogni totalitarismo — compariranno tutti, l'uno dietro l'altro, nelle prime annate del settimanale, prima del più diretto e teso impegno politico, quello successivo alla scissione liberale del '55 e alla costituzione del gruppo radicale (così diverso, l'ha giustamente ricordato Leone Cattani, dal radicalismo di oggi!). Luigi Albertini era mancato alla fine del '41; e solo per questo non lo ritroveremo fra i collaboratori del Mondo. Ma non è senza significato che l'ombra di Albertini si distenda, in quel primo numero, sul giornale appena nato, attraverso la prima puntata del singolare e rivelatore carteggio con D'Annunzio, ordinato da Antonio Baldini con « intelletto d'amore » pari alla sua nostalgia della vecchia Italia, del « mondo d'ieri »: con un titolo, anche quello rigorosamente ed ironicamente pannunziano, « Libri, donne e cavalli all'ombra di un amico ». Il più stretto confidente e collaboratore di Pannunzio, Niccolò Carandini, l'uomo che aveva difeso a viso aperto i diritti italiani a Londra, aveva sposato la figlia del grande direttore del Corriere; e una certa aura albertiniana tornava nel giornale che da Albertini derivava una sprezzante indipendenza per i potenti, una lontananza ostentata dal potere politico, quasi l'ansia di andare contro-corrente. Non a caso Pannunzio non lascerà mai la stanza grande e disadorna del primo studio di via Campo Marzio — quella col ritratto di Cavour alle spalle — per andare ad incontrare deputati o ministri a Montecitorio; aspetterà che andassero da lui. E Carandini ci testimonierà una volta che Pannunzio si rifiutava perfino di guardare i bollettini di tiratura per il timore di essere influenzato o sospinto a scelte di cattivo gusto. Monito a tanti giornalisti di oggi! Certo la rilettura, venticinque anni dopo, di quel primo ed emblematico numero del Mondo non può non essere motivo di malinconia; e per più ragioni. Quanti scomparsi, nel giro di appena un quarto di secolo! Non c'è più Sforza; non c'è più Roepke; se n'è andato pochi anni fa Panfilo Gentile, due volte presente in quel fascicolo, con un bellissimo articolo su « Chateaubriand senza pace » (i veri temi di questo gran signore e dissipatore di se stesso e della propria straordinaria cultura) e col primo classico « taccuino » di Averroè, dedicato, non senza qualche malizia, al partito repubblicano vecchia maniera, pieno di immagini mazziniane e garibaldine, chiuso nei suoi fortilizi storici. Non ci sono più né Antoni né Baldini né Negro né Bizzarri né Angioletti, che iniziava la rubrica di critica teatrale nello stesso momento in cui il compianto ed indimenticabile Ennio Flaiano si dedicava al cinema con la recensione dell'* Amleto » di Olivier, ritagliando il suo tempo sul lavoro di redazione. Potremmo riunirci intorno a un tavolo, i superstiti di quel numero, e non raggiungeremmo la decina. Augusto Guerriero, che iniziava la rubrica « Ventesimo secolo » e apriva come « anonimo » il primo numero con un articolo « Offensiva di pace », ritmato da una stupenda immagine di Truman e Stalin a Potsdam, quasi a riprendere il discorso interrotto sull'Omnibus di Leo Longanesi, questo straordinario animatore di formule e scopritore di talenti. E poi Enzo Storoni, che era stato il tramite con Pannunzio per farmi collaborare al Mondo fin dal primo numero (con l'articolo sul « Papato socialista », cui il direttore aveva apposto questo sommario anticipatore: « Papato e socialismo hanno collaborato allo stesso fine: quello di esautorare lo Stato laico e moderno » quasi lontana prefigurazione del « compromesso storico »). E poi Alberto Moravia, e Giorgio Vigolo, e Paolo Monelli, e Alfio Russo che mi doveva precedere nella direzione del giornale di via Solferino e prima essere compagno di lavoro nel tandem Bologna-Firenze, Nazione-Carlino (a proposito ancora attualissimi quell'articolo, e quel titolo: « La Jugoslavia di Tito cavalca la tigre»). I titoli e gli argomenti — oltre le ombre degli scomparsi — ci portano la seconda nota di malinconia. Guardiamoci in torno. Pochi dei problemi, denunciati con tanta intransigen te severità dal fondatore e direttore del Mondo, appaiono risolti o in via di risoluzione, pur dopo un venticinquennio di travagliata costruzione democratica. E le basi della Repubblica sembrano oggi perfino meno forti di allora: con tante occasioni perdute, con tante scadenze rinviate od eluse, con tante colpevoli inadempienze, nella lotta per l'Europa non meno che nella lotta per la libertà. E soprattutto il modello d'Italia cui guardava Mario Pannunzio appare oggi forse più lontano che nel febbraio 1949. Quelle che erano speranze, allora, si sono trasformate ormai in registrazioni amare di fallimenti cui nessuno di noi può dichiararsi estraneo. Giovanni Spadolini