Anarchici di una volta di Indro Montanelli

Anarchici di una volta CONTROCORRENTE DI MONTANELLI Anarchici di una volta In un paesetto dell'Appennino Toscano è morto l'altro giorno, alla bella età di novantasette anni, l'anarchico Giordanobruno Lunardelli, detto Labà. Non si tratta, lo riconosco, di un personaggio storico. Ma io un saluto glielo debbo perché fu il mio primo istruttore politico, e forse quello che ha più contato. Gli avevan dato quel soprannome perché, avendo vissuto molti anni in Francia, ne parlava sempre come di là bas, laggiù. Era stato amico di Amilcare Cipriani, di cui conservava gelosamente una fotografia con dedica affettuosa. Diceva anche di aver avuto rapporti col grande Kropotkin, anzi di averlo accompagnato in una missione segreta a Pietroburgo (si rifiutava di chiamarla Leningrado) per dargli mano nel tentativo di far evadere dalla fortezza Pietro e Taolo alcuni compagni implicati in un attentato allo Zar. Dalla Francia, aveva dovuto fuggire, diceva, dopo l'arresto di Ravachol, di cui era stato il primo assistente nella confezione dei suoi famosi ordigni infernali. Ed era riparato prima in Spagna, ospite di Ferrer, eppoi a Paterson negli Stati Uniti, dove aveva conosciuto Bresci, il futuro assassino di Re Umberto. Quanto ci fosse di vero, nei suoi racconti, è diffìcile dire. Più tardi, studiando gli avvenimenti a cui si riferivano, mi accorsi che alcune date non tornavano, e che Bresci, per esempio, non poteva aver fatto in tempo a incontrarlo. Ma con le bombe una certa dimestichezza doveva averla avuta realmente perché una gli era scoppiata in mano portandogli via tre dita, sebbene a sentire un suo fratello prete quell'incidente gli fosse occorso proprio perché di quegli aggeggi non s'intendeva ed era incapace di far male a una mosca. Provata era invece la sua affiliazione alla « Federazione anarchica catalana della Vergine del Pilar » perché la prima volta che andai a Barcellona egli mi dette una lettera di presentazione per i suoi vecchi compagni che di lui mi parlarono quasi con lo stesso trasporto con cui parlavano della loro Madonna. Alla Siberia Ma, vere o false, queste gesta facevano, su me bambino, un'impressione che niente ha più potuto cancellare. Davanti ai miei occhi trasognati esse evocavano lunghe file di deportati in marcia verso la Siberia, e fughe in slitte inseguite dai lupi, e tenebrosi raduni nelle cripte delle chiese, e complessi riti d'iniziazione fra uomini incappucciati, e tutto un romanzesco vivere di barbe fìnte e passaporti falsi, fra parole d'ordine, infami delazioni, spietate vendette, esaltanti attese, nascondigli e fughe, fino all'appuntamento finale con la Gloria e con la Morte: «A noi, Maestà! », e giù un colpo di pugnale al cuore. Sì, lo riconosco: la mia prima vocazione è stata quella del regicida. E anche quando mi passò, me ne rimase in corpo il gran rispetto per coloro che l'avevano seguita. C'è, negli anarchici italia- [ ni, una cupa grandezza che li distingue nettamente da tutti gli altri, e specialmente dai francesi. Uno dei falsi che Labà certamente commetteva era la sua amicizia con Ravachol, di cui sbagliava anche il ritratto fisico. Lo descriveva bello e atletico, una specie di San Giorgio in lotta col drago delle ingiustizie sociali, quale appariva nelle iconografie delle catacombe libertarie. Il vero Ravachol era tutto il contrario: di corta statura, tarchiato, con una faccia ossuta e bieca, le braccia lunghe come una scimmia, le mani nocchiute e pesanti, da strangolatore. Aveva strangolato infatti, come pollastri, una mezza dozzina di poveri diavoli, rei soltanto di vivere di rendita, e modestissima. Perché questo era il suo chiodo fisso. Ravachol odiava « il proprietario », anche se lo era solo di una casetta e di un giardino. Quando lo candannarono alla ghigliottina, vi si avviò cantando: « Si tu veux étre heureux, nom de Dieu, pends ton propriètaire». E la professione di fede che aveva rilasciato ai giudici diceva: « Io non mi risolverò mai a mendicare: un anarchico non chiede l'elemosina. In quanto a lavorare, non voglio, perché il mio lavoro arricchirebbe il mio padrone. Dunque devo rubare, ed occorrendo assassinare per procurarmi il denaro che mi è necessario. Perciò commisi diversi assassini. La mia condotta è legittima. Indica a tutti gli uomini che non hanno nulla ciò che devono fare, ossia rubare e assassinare. Quando molti faranno come ho fatto io, i ricchi finiranno per cedere e mollare il magot ». Il magot, le palanche: ecco il suo ideale. Nel suo odio c'è il livore del piccolo borghese fallito, arrabbiato e invidioso che, dopo averle portato via il magot, uccide la vittima per ideologizzare la rapina e farla passare non come un furto, ma come il castigo del ricco. Nessun anarchico italiano ha mai perseguito questo obbiettivo. Non parliamo di quelli di alto bordo come Cafiero che, ricco di nascita, si spogliò di tutti i suoi beni per la causa. Ma anche i pesci piccoli erano assolutamente refrattari al magot. Paese rurale L'anarchismo italiano non era che un poscritto della vecchia Italia rurale e artigiana messa in crisi dallo Stato unitario. Bresci veniva da una famiglia contadina che integrava i modesti redditi del podere con quelli del telaio domestico al servizio delle piccole imprese per la tessitura della lana di cui Prato pullulava. Il primo grande stabilimento, che ancora si chiama «fabbricone», concentrò i telai distruggendo quelli casalinghi, e tutta la vecchia economia ne fu dissestata. Anche i Bresci dovettero vendere il loro fondo, ma non riuscirono mai a adattarsi alla loro nuova condizione di operai. Questa renitenza al mondo moderno con le sue servitù e irreggimentazioni non era limitata alle classi popolari. Ne partecipavano anche quelle colte, attaccatissime alla loro ottocentesca « Toscanina »: se ne trovano chiarissime le tracce in Collodi, Fucini, e più ancora in quel Maestro Domenico di un bozzetto di Pelosini che, addormentatosi sotto i Lorena e svegliatosi dopo l'unità e il trasferimento della capitale a Firenze, scambia i « buzzurri » per austriaci e brontola: « Dio, come sono peggiorati! ». In questo groviglio di rimpianti e risentimenti reso più acuto dal disagio economico, era naturale che la predicazione anarchica trovasse il più fertile dei terreni. Bresci era un Maestro Domenico concimato da Bakunin che, rifiutando l'Italia e i «buzzurri» che l'avevano fatta, credeva di battersi per il « progresso ». Secondo una voce, mai sicuramente confermata, ma nemmeno mai sicuramente smentita, rientrando da Paterson in Italia per sparare a Umberto, s'incontrò a Parigi con Maria Sofia di Borbone, la deposta regina di Napoli. Forse non è vero, ma potrebbe esserlo. Bresci era, senza saperlo, un sanfedista che, credendo di metterlo avanti, voleva rimettere indietro l'orologio della Storia; ma con un gesto alla grande, di aperta sfida, e contro il bersaglio più alto. Egli non avrebbe mai torto il collo a un propriètaire, per il magot. Voleva il Re, lo voleva di fronte, e di fronte a tutti. Il mio povero vecchio Labà era tagliato nello stesso legno. Anche lui, tipografo, era un ex artigiano che non aveva mai saputo risolversi a diventare operaio ed era fallito tre o quattro volte per aver voluto stampare a proprie spese le opere di Kropotkin e di Bakunin. Mai ho conosciuto una creatura più disinteressata, più candida e, pur nella sua modestia, più nobile: mai gli ho sentito pronunciare una parola di odio, o anche solo d'invidia per i ricchi. Il Tiranno. Era con quello che voleva misurarsi. Era quello che sognava di uccidere. Per meno non ci si metteva. Subito dopo la Liberazione, venne a trovarmi a Milano, e volle che lo conducessi in piazzale Loreto a vedere dove avevano impiccato Mussolini. Glielo mostrai e rimase a lungo a guardare sovrappensiero e con aria corrucciata, ma senza aprir bocca. Poi, mentre tornavamo passo passo verso il centro, a un certo punto mi serrò il braccio e sibilò fra i denti: « E ora? ». E ora, voleva dire, le Dombe contro chi le tireremo? Infatti non ne tirò più, ammesso che ne avesse mai tirate, come subdolamente cercava di far credere. Re e Zar Si ritirò in casa del fratello prete, dove ogni tanto andavo a trovarlo, sempre più immusonito e triste. Una volta gli dissi che stavo per andare in Portogallo. « Vedrai il Re?» mi chiese. «Forse». Dopo qualche attimo di riflessione, aprì un cassetto bene inchiavardato, frugò in un mucchio di vecchie carte e ne trasse fuori una sequenza di fotografie ingiallite che mostravano Umberto giovinetto a cavallo in un bosco insieme al suo aiutante. Gliele avevano scattate dì nascosto, mi disse, lui e i suoi compagni per preparare un attentato. Mostrandomele, aveva gli occhi inumiditi. « Se gliele porti, te le do » mi disse. Le presi, ma non gliele portai. La nipote mi ha scritto che le sue ultime parole sono state: « Lo Zar... Lo Zar... ». Dio sa cosa avrebbe dato per accopparne uno. Purché, s'intende, ce ne fosse un altro di ricambio. Indro Montanelli