Axel Munthe di Indro Montanelli

Axel Munthe CHI RICORDA "SAN MICHELE,,? Axel Munthe Per il venticinquesimo anniversario della sua morte, scaduto ni febbraio, una rivista svedese mi aveva chiesto una testimonianza su Axel Munthe e su ciò che ne resta. Già: che ne resta? Io credo che di Axel Munthe resti solo Axel Munthe. Lo dico un po' a naso perché del suo San Michele non ricordo quasi più nulla. Ero amico di Munthe e quando morì pensai che il miglior omaggio che potevo rendergli era di riporre il suo libro in un cassetto, accanto a Un uomo finito di Papini e ad altri pochi, e di buttar via la chiave. Così ho fatto, e me ne trovo benissimo. Certi autori vanno cuciti alla data in cui li leggemmo, e lasciati 11. * * Non so se Munthe fosse proprio quel queer fish, quel pesce strano, ch'egli diceva e forse anche credeva di essere. Posso soltanto dire con assoluta certezza che, dopo aver costruito il proprio personaggio, nessuno seppe più di lui assomigliargli. Il suo compatriota Biòrnson, che lo conobbe quando ancora Munthe non era diventato Munthe e faceva il medico a Roma, lo descrive così: « Egli abita in piazza di Spagna, nello stesso appartamento in cui è morto il poeta inglese Keats. Se si entra da lui, si può star certi di trovare i volumi di Keats e di Shelley aperti come per caso sul tavolo, e sempre in edizioni splendide. Nell'anticamera c'è un'enorme coppa colma di carte da visita. Quella di Gladstonc galleggia bene in vista sul cumulo delle altre: bisogna ritenere che 10 statista inglese sia appena uscito dallo studio di Munthe. Munthe circola in una vettura tirata da due ponies. Accanto a lui, o la principessa ereditaria di X..., o i suoi due cani. Il cocchiere e 11 groom soho entrambi in livrea; lui, semplice come Napoleone. Per una visita, richiede da 50 a 100 lire; ma poi le lascia sparpagliate sui mobili, senza raccoglierle... ». Il ritratto è a bersaglio, ma non illumina che una delle facce di Munthe. Certamente all'origine del suo successo c'erano anche lo snobismo e la ciarlataneria, ma in tali dosi da assurgere quasi a virtù. Piccolo medico di provincia, ignoro come entrasse alla corte di Stoccolma, ma è risaputo che non vi fece mai il cortigiano. La sua grande protettrice fu la regina Vittoria, moglie tedesca di Gustavo: una donna imperiosa e capricciosa che faceva disperare tutti, ma specialmente i medici coi suoi mali immaginari. Munthe la secondò in molte cose: nella sua passione per Mozart e nella mania zoofila. Ma in tutto il resto le teneva testa, e con maniere che a chiunque altro sarebbero costate il licenziamento. Invece che pozioni, le propinava sgridate, e qualcuno dice addirittura ceffoni. La principessa Maria, ch'era una granduchessa russa e aveva sposato il secondogenito di Vittoria, dice che questa aveva trovato in Munthe un « Rasputin ripulito ». Ma parlava di sua suocera e comunque, anche come Rasputin, Munthe lo fu a modo suo. Quando scoppiò la prima guerra mondiale, la regina, tutta per la sua Germania e incapace di nasconderlo, Dio sa quali malestri avrebbe combinato, se Munthe, anglofilo per la pelle, non avesse provveduto a richiamarla all'ordine con le sue spicce maniere. Forse fu allora che, mescolata di gratitudine, nacque la simpatia di Gustavo per lui, unico uomo che riuscisse a tenergli quieta non solo la moglie, ma anche la regina. Sperimentata su una cavia di tale rango, la sua terapia fece presto a imporsi in tutta Europa. Grande medico, dicono, non fu mai; ma grande conoscitore di donne si, e non ce ne fu una che da paziente non si trasformasse in adoratrice e propagandista. I suoi colleghi e rivali attribuivano questi successi alle sue risorse amatorie. Ma non è vero. Munthe non fu mai un sottaniere, anzi a quanto pare si amministrava con molta parsimonia. Eppure furono le donne che, dopo aver fatto la sua fortuna di medico, fecero il suo successo di scrittore. Munthe aveva pubblicato un primo libro durante la guerra, Red Cross and Iron Cross, che non aveva incontrato grandi favori, e non li meritava. Aveva sbagliato argomento. Nel suo cosmo non c'era posto che per un personaggio, lui. E di lui infatti il San Michele trabocca, dalla prima all'ultima pagina. Invade tutto, la terra, il cielo, il mare: anche gli uccelli volano come avrebbe volato Munthe, se avesse avuto le ali. Fu, credo, il più clamoroso best seller degli Anni Trenta: nella sola Inghilterra se ne vendettero oltre cinquecentomila copie. E Capri gli deve la sua fortuna (o la sua disgrazia): cominciarono a venirci da tutto il mondo non per vedere Capri, ma per vedere Munthe, che vi aveva eletto la sua dimora, assistito da un folto stuolo di Marte e Maddalene. La sua presenza cancellò tutte le altre: quella di Edwin Cerio, quella di Malaparte, e perfino quella di Tiberio. Anche Mussolini dovette scendere a patti con lui e consentire al bando, ch'egli reclamava, della caccia alle quaglie. Io lo conobbi appunto allora, grazie alla baronessa Uexkull-Schwerin, la più fedele delle sue ammiratrici, ma anche l'unica che sapeva guardarlo con un certo distacco. M'illusi di averne conquistato la difficile simpatia grazie ai miei doni di conversatore, ma poi mi accorsi che la dovevo soltanto alla depressione nervosa di cui soffrivo e che mi procurava acute crisi di tanatofobia. Non glielo dissi mai, ma lui lo capi perché di quella ossessione egli stesso era vittima, e mi era grato di condividerla. Allora compresi che il fascino di Munthe era proprio, frammischiato a quello barbaro e romantico della natura, questo senso cupo della morte che pervade le sue pagine. Anche senza rileggerle, posso giurare che qui non ci son trucchi. E questo soffio di poesia basta a riscattare tutte le pose del personaggio, i suoi snobismi, le sue fasullerie, la sua « bottega ». Anche Capri la vedeva come una Toleninsel, un'isola dei morti, specie da quando il buio era cominciato a calare sui suoi poveri occhi e a spengerglieli. Non volle sentir di lasciarla nemmeno quando scoppiò la guerra, e ci rimase fino al '43. Diceva di non sapere dove andare e di non averne neanche i mezzi perché aveva speso tutto nel suo San Michele. Ci aveva speso molto infatti, ma male, perché di oggetti d'arte non capiva nulla, e aveva riempito quella casa di « patacche » facendone una specie di Capponcina. Soltanto la paura di cadere in mano ai tedeschi che, ricordando la sua anglofilia al tempo della prima guerra mondiale, lo chiamavano nei loro giornali der Lump voti San Michele, lo straccione di San Michele, si decise ad accettare l'invito di re Gustavo che gli offriva ospitalità nel palazzo reale di Stoccolma. ★ * Fu qui che lo ritrovai nel '49, ormai quasi del tutto cieco, e immobilizzato dall'asma e dalla sciatica. Era arrabbiatissimo con Zizero, cioè con Cicerone, di cui aveva appena finito di leggere, o meglio di farsi leggere il libro sulla vecchiaia. « Cosa vuol sapere della vecchiaia — disse — uno che non c'è arrivato? Il libro sulla vecchiaia posso scriverlo solo io che ho compiuto mille anni qualche secolo fa ». Poi mi descrisse minutamente il viaggio di ritorno a Capri, per il quale aveva già fissato il vagone-letto fino a Basilea, e me ne mostrò la prenotazione. Seppi più tardi dalla sua segretaria che quella prenotazione risaliva a tre anni prima, e che da allora ad ogni scadenza fingevano di rinnovargliela. * * Andavo a largii compagnia ogni pomeriggio, e un giorno ci trovai, intento a preparargli il tè, re Gustavo, che aveva doppiato prima di lui il capo della novantina, ma era ancora diritto come un fuso e in possesso di tutte le sue facoltà. Sui primi tempi dell'ospitalità Munthe aveva preso i pasti alla tavola reale, ma un giorno aveva ordinato che glieli servissero nel suo appartamento perché, aveva detto al Re, fra tutte quelle cariatidi si annoiava. Così era il Re che scendeva a fargli visita, e non facevano che bisticciare, o per meglio dire bisticciava Munthe perché il Re, con sottile perfidia, opponeva alle sue bizze, per farle meglio risaltare, la più angelica pazienza. Il principale pomo di discordia erano certe bottiglie di vino rosso che Munthe si ostinava a voler pagare di tasca propria al cantiniere di Corte come un extra non compreso nella pensione. Ma il motivo vero della sua acredine era che il Re stava bene, ogni giorno faceva la sua bella passeggiata, anche quell'anno era stato sulla Costa Azzurra, e Munthe sospettava che avesse perfino giocato a tennis. « Lo so da gente che lo ha visto — bofonchiava in italiano, mentre il Re accudiva al samovar —. I medici glielo hanno proibito, ma lui se ne infischia. Gli hanno proibito anche di fumare, e lui fuma. Tre sigarette, dice. Saranno almeno trenta... ». L'ultimo giorno, nel salutarlo — e sapevo che non lo avrei più rivisto — gli dissi: « Allora ci rivediamo a Capri? ». Non rispose. Poi, dopo un lungo silenzio, fece: « Quella finestra, vedete com'è grande? » (dava sempre del voi perché l'italiano l'aveva imparato dai napoletani). « La morte può passarci comodamente, quando vuole. Io non ho paura della morte. Ma di morire, sì, tanta paura... ». Altra pausa. Poi, con stizza: « Re Gustavo invece non ha paura neanche di questo. E' una macchina che non consuma benzina. Ne avrà sempre per tirare avanti, e anche col tennis e le sigarette. Che fesserie va dicendo, quel Zizero? Questa è la vecchiaia, ragazzo mio: la paura di morire, e l'odio per chi ha ancora benzina... ». E si coricò sul fianco, volgendomi le spalle. Indro Montanelli