Sul sentiero degli Inca di Mimmo Candito

Sul sentiero degli Inca Viaggio nel profondo del Sudamerica Sul sentiero degli Inca Nell'altipiano andino, milioni di "indios" si consumano in una vita durissima, al limite della sopravvivenza - Le foglie di coca non fanno sentire né fame né fatica L'incredibile treno che, a quasi cinquemila metri d'altezza, porta da Cuzco a Juliaca (Dal nostro inviato speciale) Juliaca, 12 febbraio. L'indio sembra di pietra, accoccolato tra i macigni sacri di Sacsayhuamàn. Ha cento anni, o anche duecento. Piglio dei figli di Manlo Capac, è grigio e duro come la roccia che gli s'appoggia Nel silenzio del tempio di Kkennko, strappa a un piccolo strumento a corde un suono monotono, ossessivo, come musica orientale; lo varavi appena sussurrato ha parole misteriose. Sembra la resurrezione dell'ìnca I pochi turisti lo scrutano impressionati, venendo alla luce dai ciclopi silenziosi dell'anfiteatro. La sua piccola figura ha la storia d'una antica dignità. L'unica cosa viva, nell'uomo di Sacsayhuamàn, è la fossa nera della bocca, corrosa dalla coca. Sulle strade delle Ande, che spesso hanno ancora la polvere tracciata dall'inca, l'incontro con l'indio è sempre segnato dal lento masticare le foghe di coca. La boia gonfia la gota, corrode i denti, fa dimenticare stanchezza, fame, cammino duro. Sono piccole foglie opache, leggere, senza sapore; se ne mettono in boca tre o quattro, unendovi poi un pizzico di calce o cenere. Il gusto asprigno dell'alcalino che si libera giù nella gola dà l'illusione del vigore. A quattro e a cinquemila metri d'altezza, ogni passo è fatica, nel silenzio e nella solitudine. Senza la cocorita, non ci sarebbe nemmeno l'illusione di vita. Due terzi almeno, dei 13 milioni di peruviani, vivono così, perduti nei canaloni ventosi della Sierra, consumati dall'etnocidio che, con la benedizione dei padri Valverde, Pont, Matrillo, sconvolse la civiltà dell'abito incaico. Taciturni, gli occhi seri d'una paura ancora uguale, chiusi nelle loro lane dai colori stinti, più che camminare corrono, trasferendo il loro peso da un piede all'altro con una dolcezza che dissimula lo sforzo. Non si fermano, non parlano. Masticano soltanto. Passano come figure misteriose, cariche di pesi enormi che reggono in un equilibrio dondolato, spostandosi verso i minuscoli villaggi nascosti nei meandri della lava. Le loro case sono capanne di fango, blocchi ciechi senza finestre, che tengono fuori il vento gelido delle Ande e il terrore degli spettri. Il feto disseccato d'un vitello appeso sotto il tetto di paglia o, sopra, una piccola croce di ferro, assicurano la speranza della fecondità, mescolando paganesimo rurale e opportunistica resa ai conquistadores. Ho tentato più volte di parlare con loro, legando ad essi il mio passo sulla terra dura e sonora della montagna, o chiedendo acqua nella penombra delle capanne. Ho avuto in risposta sguardi vuoti, il silenzio ritroso, un distacco evidente, come d'una pietra. «E non poteva essere diversamente)) m'hanno detto a Lima, una sera, alcuni giornalisti peruviani, in un cenacolo che aveva calore indio e saggezza meticcia. «In Bolivia, in Perii, basta essere bianco per suscitare diffidenza. I bianchi sono, da quattrocento anni, i massacratori: hanno ucciso, sterminato sfruttato nel nome di Cristo; ma soprattutto hanno violentato una civiltà, costretto alla finzione: l'indio, per sopravvivere, ha dovuto nascondere la propria anima, la psicologia, l'etnos. Quella che appare a molti indifferenza, è soltanto una istintiva e secolare scelta di resistenza passiva». l/indio, oggi, aspetta ancora il ritorno del dio Wiracocha. Nell'attesa magica, consuma i suoi giorni brevi di fame e annientamento, in una vita che è immutata, quella del XVI secolo. Troppo povero per conoscere il denaro, coltiva antiche terrazze di terreno sul pendio rapido delle Ande, là dove curve capricciose hanno tenuto lontani i torrenti di lava: patate, cipolle, mais, sono strappati alla logica della gravità in gole scoscese, che colorano all'improvviso di verde e porpora l'azzurro freddo delle lunghe montagne. Questa solitaria economia di sopravvivenza ha, per alcuni, il tuffo periodico nel fervore silenzioso dei villaggi più popolati — come Huancayo per esempio, che la domenica mattina raccoglie lunghe file di animali e ortaggi nella terra doi suoi vicoli: la putredine del mercato riempie l'aria d'odori intensi, stagnando appena al di sopra di uomini e donne immobili a terra, tra mosche sazie e lente. La logica è quella sapiente del baratto, e il denaro che v'arriva ha il mistero di leggi ignote: il colore della cartamoneta finisce per essere la chiave del «codice», le somme e le sottrazioni chiedono l'aiuto dei bimbi, quando sono scolari. Sono i giorni in cui, nelle vecchie chiese di legno e pietre, si celebrano funzioni reli¬ I giose che la penombra oscura fa antiche magie; davanti a divinità e santi che conservano il terrore d'un mistero non spiegato o grondano rossi il sangue d'una violenza vera (l'identico pauroso verismo del grande crocefisso che domina il tavolo del giudice, nei polverosi tribunali di questi pueblos). I villaggi sono piccole tappe nella solitudine sterminata della Sierra, sovente all'interno di valli profonde, accanto ai resti pietrosi d'un tambo, lungo sentieri che furono degli inca. In un Perù grande quanto mezza Europa, non vi sono che poche centinaia di chilometri di strada. Il resto è nel passo corto dell'indio. La ferrovia, nei suoi brevi tratti, s'arrampica sulle Ande con una forza che sembra legata solo alla volontà del macchinista, tra ciuffi radi di eucalipto e vallate di fiumi veloci. La più folle è la ferrovia che lega Cuzco ad Arequipa, sfiorando con costanza i cinquemila metri d'altitudine. II Perrocarril Sur parte dall'antica capitale dell'impero incaico tre volte alla settimana, più o meno alle ore 15. Ha vagoncini con la persiana e la veranda, come quelli di John Ford, e poltrone di legno a due posti, decorazioni liberty, odori intensi di anni. Li popolano meticci in abiti scuri, che si trascinano grandi ponchos contro il freddo della notte; o indios silenziosi, attaccati ai loro bagagli di pezza, gli occhi fuori del minu- I scolo oblò, a seguire i burroni improvvisi delle montagne. Il trenino va volenteroso, ansando fumo bianco nell'aria leggera, con piccoli scrolloni e sussulti di fatica. Per fare i trecento chilometri che vanno da Cuzco a Juliaca (tappa necessaria per chi è diretto in Bolivia), ci vogliono nove ore. Un viaggio incantato, con le pause lunghe e serene delle soste nelle stazioncine delle Ande. Sono i villeggi di poche capanne che seguono la linea ferrata, legati ad un passaggio che li fa vivi a giorni alterni. Gli indios attendono l'arrivo del treno seduti sul binario, tenendo accesi — donne e bambini — piccoli fornelli sui quali si scaldano empanadas di carne e fagioli cotti. Dal treno scendono tutti, compresi il macchinista e il bigliettaio con la divisa d'alamari. E in un cicaleccio lieve, che il vento tiene lontano, tutti mangiano, con applicazione. La sosta è lunga e paziente, in ogni villaggio. E il rito, sorprendente per autenticità e calore umano, si ripete immutato. Forse immutabile. Nella puna arida di Juliaca s'arriva verso la mezzanotte. Chi non è lesto ad accaparrarsi un posto sui due colectivos che portano a Puno, resta a terra. Il ferroviere chiude rapido la porta della stazione e se ne va a casa, seguito subito dopo dalle donne che hanno venduto le ultime brode di lunghe ossa calde e di fagioli sfatti. Chiusi nel poncho, addossati al muro della stazione per ripararci dal gelo e dall'acqua, con due sposi meticci e un giovane indio abbiamo aspettato il nuovo colectivo fino alle sei del mattino. E' stata una notte percorsa da spettri e leggende. Mimmo Candito

Persone citate: John Ford