Malinconici caffè di San Francisco

Malinconici caffè di San Francisco RITORNO IN AMERICA Malinconici caffè di San Francisco Quando è che ci si accorge che qualcuno è un amico? Di solito, la prima volta che gli si dice addio per un tempo che si prevede lungo o forse per sempre. Ebbene, le città sono come gli uomini. E le città che si amano sono come gli amici. Ci si accorge di amarle quando si lasciano. Nel viaggio di andata, mi ero fermato a New York, al Kennedy, un paio d'ore. Sedevo, con mia moglie, in uno dei grandi divani semicircolari dove i passeggeri attendevano la chiamata del volo per San Francisco. Qualcuno, all'estremità opposta del semicerchio, leggeva un giornale tenendolo alto e spiegato così che, in quel momento, non vedevo il suo volto. Sono un po' miope. Anche con gli occhiali, non riuscivo a capire che giornale fosse: ma, dalla forma dei caratteri della testata e, vorrei dire, dal tono di grigio freddo e di nero, mi pareva che fosse La Stampa. Quella mattina, alla Malpensa, La Stampa era esaurita. Se non dò un'occhiata alla Slampa, manca sempre qualcosa alla mia giornata, almeno sapere chi è morto nella mia città; e si può dedurre da un mio romanzo quasi autobiografico pubblicato nel 1964 che provavo lo stesso bisogno quando non ero ancora collaboratore: lo provavo fino dal lontano 1927, a Roma. Mi alzai dunque e mi spostai sul divano quanto bastava per verificare che, effettivamente, si trattava della Stampa. * * Attesi che il lettore invisibile sfogliasse il giornale. Ma, per caso, o come avvertito da un fluido, lo ripiegò subito in quattro: aveva finito. Era un giovane sui vent'anni. « Scusi, per piacere, può imprestarmi il giornale? ». « l'm sorry, I don't understand » disse. Non capiva l'italiano. Ripetei la domanda in inglese. Mi passò il giornale senz'altro, e senza accompagnare il gesto dal minimo accenno a un sorriso. Continuai in inglese. « E com'è che lei legge La Stampa se non conosce l'italiano? ». « Quando è scritto, capisco qualche cosa », disse sempre serio: pareva indifferente, se non addirittura triste. Era un bel ragazzo bruno, forte, magro. « E come mai legge proprio La Stampai ». « Perché vengo da vicino a Torino ». « Ah, si? Sono di Torino anch'io. Per questo, mi scusi se sono curioso. Da dove viene precisamente? ». Esitò un istante: per vergogna che fosse un paese piccolo e ignoto o, più candidamente, per pudore: « Da Sant'Antonino di Susa. La mia famiglia è originaria di lì ». « Ma conosco benissimo Sant'Antonino! » esclamai con irruenza. « E Sant'Ambrogio, Borgone, la Sagra di San Michele, il Musine... Sono le prime passeggiate che ho fatto da ragazzo, quando ero ancora più giovane di lei: anche da bambino! ». Finalmente sorrise: ma un sorriso tenue, forse non al ricordo di quei nomi, che per lui significavano molto poco, ma proprio al mio entusiasmo senile. « Però lei è nato in America, no? ». «Sì, a San Francisco. Mio padre ha un Caffè in Green Street », adesso parlava franco, con un certo orgoglio, « Columbus Café. Rovero Raimondo. Io mi chiamo Rovero David ». « Benissimo. Sono a Berkeley per qualche mese. Verrò molto spesso a San Francisco»; e ripetei, scrivendo sul mio notes: « Raimondo Rovero, Columbus Café, Green Street. Verrò certamente a conoscere suo padre ». Non disse niente, né la sua espressione triste cambiò. Il jumbo è vasto, ed era pieno. Durante la traversata, non vidi più il giovinotto. Una delle prime volte che scesi a San Francisco, passai per caso in Green Street. Era il vecchio quartiere italiano di North Beach. Vidi l'insegna: un caffè misero, squallido, consunto, simile in tutto ad altri 11 vicino, come il Bar Trieste, lo Snack Marconi, i caffè lucchesi che avevo visto in Stockton Street, Vallejo, Union, Grant... Per un istinto che non fu chiaro neanche a me stesso, non entrai: discrezione, timore, pudore forse? sentimenti che si ricollegavano in qualche modo alla sua esitazione prima di dirmi "Sant'Antonino di Susa"? o piuttosto un riflesso persistente della strana indifferenza con cui aveva accolto la mia promessa di una visita? Quella indifferenza, in ogni caso, la ricordo solo adesso: allora, nell'esaltazione e nell'ebbrezza con cui, ogni volta, mi aggiravo per le folli, meravigliose, precipiti vie di San Francisco, l'avevo completamente dimenticata. Quando andavamo a San Francisco, passavamo poi quasi sempre in Green Street: perfino vi parcheggiavamo la macchina. Ma soltanto l'ultimo giorno, alla vigilia della nostra partenza dalla California, mi decisi a entrare nel Columbus Café. Era verso la fine del pomeriggio: ma non avevano ancora acceso la luce. Nella penombra grigia, una quindicina di persone erano sedute qua e là ai tavolini; qualcuno giocava alle carte; due erano al bancone. Tutti in silenzio, tutti vestiti di scuro; e tutti, almeno cosi mi parve alla prima occhiata, uomini anziani o di mezz'età. In silenzio già prima? o si erano azzittiti al mio ingresso? Certo, tutti mi guardavano come stupiti, e anche insospettiti. Dopo qualche istante, ricominciarono a parlare sottovoce, in inglese e in italiano. Dirò subito: ogni altra volta che, a San Francisco, ero entrato in uno di quei caffè italiani, avevo trovato press'a poco la stessa atmosfera di tristezza, e la stessa diffidenza verso la mia apparizione. Di là dal bancone era un uomo forte, bruno, dalla barba di due giorni, fisicamente lo stesso tipo del giovanotto del Kennedy: pensai che po teva essere il padre. Vidi che c'era la macchina dell'espresso, ordinai un caffè. Seduto sull'alto sgabello, seguitavo, con un certo imbarazzo, a sentire su di me lo sguardo di tutti intorno. Appena l'uomo mi servì gli dissi: « C'a m' scusa, a l'è chiel munsù Rovero Raimondo? ». « Sì », rispose, « perché? » E mi fu chiaro, dalla sola infles sione di quel perché, che non intendeva rispondermi in dialetto. Continuai imperterrito: « Chiel a l'è 'd Sant'Antunin 'd Susa, neh? ». Assenti, con un mezzo grugnito. Mi resi conto, con rammarico, che il mio approccio, sebbene in piemontese, non era stato diverso da quello di un poliziotto. Un poliziotto che veniva da Susa? Mi affrettai a spiegare che ero torinese e che, mesi prima, avevo volato da Milano con lo slesso aereo di suo figlio e che avevamo fatto conoscenza. « David? ». « Sì, David. Brau fieul. A j'è nen? ». « No », disse lui con un tono niente affatto incoraggiante. Al punto che mi fu impossibile riprendere un discorso che avevo appena iniziato e che, per una ragione o per l'altra, il Rovero non gradiva. Sorbii il mio caffè, pagai. Avviandomi alla porta, mi avvicinai a un tavolo di giocatori che erano nel vano della finestra e scambiai con loro qualche parola vaga, di cui non ricordo nemmeno il pretesto, tanto era il mio disagio. Salutai cortesemente, uscii. ★ ★ Green Street, Columbus Avenue. Camminavo assorto, nel grigiore del precoce crepuscolo, chiedendomi il perché di quell'accoglienza, che mi era apparsa giustificata ne gli altri consimili e vicini caffè: come accade ogni volta che, in ogni città del mondo, un estraneo entra in un locale pubblico ma frequentato quasi esclusivamente da una piccola comunità in qualche modo isolata dal resto della popolazione: ma, proprio per questo, avevo, ora, parlato in dialetto e avevo detto subito che ero torinese: avrebbe dovuto bastare, secondo me, a rompere il ghiaccio. Mi dissi anche che, se fossi stato triestino e avessi parlato triestino entrando nel Bar Trieste, sarebbe stato diverso, chissà. Senonché, di colpo, capii che la spiegazione era un'altra. Mi ricordai che quel quartiere era una volta abitato soprattutto dagli italiani: e che, adesso, avanzavano e premevano dall'attigua Chinatown i cinesi, che avevano preso a poco a poco e continuavano a prendere il posto di quegli italiani che socialmente erano cresciuti e si erano trasferiti poche strade più a Nord, o dovunque altrove nelle zone di palazzine o di ville moderne e lussuose. Abbandonata dunque North Beach dai « riusciti », dagli integrati, dagli italiani diventa ti al cento per cento americani, quei poveri caffeucci sono ormai i luoghi dei rimasti, dei falliti, di quelli che non sperano più: o, in parte, forse, degli ultimissimi arrivati, dei pochi novellini, per i quali l'America da conquistare appare un'impresa sempre più difficile. Capii così il perché di quel silenzio, di quel buio, di quella tristezza, di quei mezzi sorrisi e di quelle occhiate diffidenti all'ingresso di un estraneo: anche se, soprattutto se l'estraneo è un compatriota o un compaesano: proprio davanti a lui, infatti, essi si sentono sfortunati o colpevoli di non aver saputo approfittare della fortuna. * * I nomi degli italo-americani famosi, dai Giannini ai Salvadori ai Ghirardelli ai Lanzone, compresi perfino i nomi altrettanto famosi dei gangsters e dei padrini, sono certo pronunciati a bassa voce in questi caffeucci: appartengono a un mito irraggiungibile e contrastano con un pensiero ossessivo quanto ineffabile: « Ecco, siamo qui, siamo in California, siamo cittadini, ma, in fondo, tanto valeva che fossimo restati di là, il nostro destino non sarebbe stato diverso, forse sarebbe stato migliore, perché almeno saremmo ancora coi vecchi amici ». L'area metropolitana di San Francisco tocca appena il milione di abitanti, ma l'area della Baja forse i cinque milioni, una delle più grandi città degli Stati Uniti. In tutte le guide turistiche, come splendore e meraviglia urbanistica, San Francisco viene subito dopo New York. Così è anche nel mio affetto. Ma, sembrerà strano, giunto il momento di dire addio a San Francisco, più che ai suoi grattacieli specchiati nella Baja e ai suoi fantastici scivoli ora verso il cielo e ora verso l'Oceano, più che alla gloria del Golden Gate e alla solennità del Tamalpai's, più che all'inebbriante folla del Fisherman's Wharf e dei mercati cinesi, penso ai melanconici, lugubri caffeucci di Green e di Vallejo. E, sembrerà ingiusto, sembrerà addirittura sconoscente, più che a tutte le gentili, cordiali, premurose persone che mi hanno accolto, più che ai miei stessi scolari dell'Università, che attenti e benevoli mi hanno ascoltato, e applaudito e festeggiato, pen so con amore agli ignoti che mi hanno respinto perché loro stessi si sapevano respinti Mario Soldati