"La montagna sacra,, e "Cristo superstar,,

"La montagna sacra,, e "Cristo superstar,, PRIME VISIONI SULLO SCHERMO "La montagna sacra,, e "Cristo superstar,, La montagna sacra di Alexandre) Jodorowsky, con A. Jodorowsky, Horacio Salìnas, Ramona Saunders. Americano, fantastico. Cinema: Centrale d'Essai e Gioiello. Molti si precipiteranno a vedere questa Montagna sacra, che non l'avrebbero fatto senza il maldestro quanto labile (intervento della censura. Non rammarichiamocene. Sotto il marchio dello scandalo, che contrabbanda tanta merce avariata, si coglie un film d'inconsueto vigore cinematografico, un'opera, nel suo piglio provocatorio e blasfemo, di prorompente sincerità, che richiama lo spettatore alla pura e semplice operazione di stare a vedere. Ne è autore integrale (regista soggettista sceneggiatore scenografo musicista costumista) l'oriundo russo quarantatreenne, cileno di nascita, vissuto nel Messico, dn Francia e negli Stati Uniti, Alexandre» Jodorowsky, rivelatosi con un precedente El topo che si aspetta passi presto sui nostri schermi. Da un siffatto miscuglio etnico non poteva uscire che un film aggiornato secondo le più estenuate estetiche contemporanee; e bravo chi, a codesto grado d'incandescente fusione, sapesse discernerle e nominarle tutte, senza fermarsi alla più appariscente, un surrealismo alla Bunuel della prima maniera. La montagna sacra è un apologo comprendente una summa di motivi dissacranti, versato in forma di happening. Volendone enucleare un « soggetto », sarebbe questo. In un emblematico Paese latino-americano di tipo repressivo e compiutamente alienato (il film è stato girato nel Messico) un giovane ladro e nove rappresentanti del potere industriale ricorrono a un alchimista (interpretato dallo stesso Jodorowsky) perché li faccia partecipi del segreto dell'immortalità. Dopo averli spogliati e classificati, colui li mena in cima a una mitica Montagna, dove da trentamila anni vivono nove saggi che hanno sconfìtto la morte. La faticosa ascensione, fitta di peripezie allegoriche, si conclude in burla: i nove saggi sono altrettanti fantocci; come dire che l'immortalità non esiste, ma esiste soltanto, ed è un bene non meno prezioso, la conoscenza della realtà. Su questo traliccio didattico il regista ha acceso i fuochi di un autentico dono visionario, che brucia senza residui (ma non senza qualche stanchezza nella seconda parte) in un inesauribile gioco di combinazioni figurative. Sono visioni d'un bestiario repellente, spunti allegramente osceni di satira erotica, atroci mascherate religiose, anatemi, sberleffi, lazzi, deformazioni oniriche, che squassano il «sistema». Inutile cercarne il nesso ideologico dal momento che lo stesso regista sembra dubitare di esso, quando, alla fine della sua fantasmagoria, ci avverte che « siamo in un film »: importa gustare l'impeto profanatorio che pervade l'intero lavoro, ridotto così a un delirio d'immagini di valore disuguale ma tutte ugualmente plastiche. Frutto d'una cultura sincretica in cui si trovano insieme Bunuel, Fellini, Dalì, Arrabal e Topor, La montagna sacra può sconcertare o avvincere nella stessa misura, ma di certo è il documento d'un cinema vivo, ricondotto alla matrice linguistica del meraviglioso, e cosi coerente e filato nella sua assurdità da sembrare vero (della verità dei sogni). Merita pertanto di essere conosciuto. 1. p. * ★ «Jesus Christ Superstar» di Norman Jewison, con Ted Neely, Cari Anderson, Yvonne Elliman, Barry Denn. Produzione americana a colori. Cinema Astor. (s. r.) Arriva in ritardo, col suo rumore di scandalo congelato intorno, già parodiato e imitato: tuttavia c'è ancora qualcuno che lo trova pericoloso e impertinente. Jesus Christ Superstar, avendo per primo raccolto il Vangelo nell'onda del musical, teneva un piccolo choc in serbo per i tradizionalisti, che da noi sono naturalmente più fitti che altrove. Cosi si entra al cinema sorvegliati dalla polizia e si possono guardare con sospetto i compagni di spettacolo potenziali protestatori. In fondo, non è male che ci si allarmi anche per Gesù e per gli Apostoli. Con i suoi limiti di scaltrezza, ma con i suoi diritti di primogenitura il film di Jewison (tratto dall'opera rock di Rice e Webber) è un tentativo in qualche parte affascinante. Grande spettacolo di abili incastri, patetica coreografia, clamorosa invenzione. Può darsi che il suo momento sia passato, ma bisogna chiedersi perché questa sacra rappresentazione-rock abbia ottenuto tanto consenso e tanta curiosità nel pubblico, soprattutto tra i giovani. La risposta probabilmente non è di natura teologica, non nasconde una interpretazione aggiornata del Vangelo. Se c'è un motivo religioso nel successo, appare comunque in seconda istanza, come superficiale polemica contro la tradizione dotta, senza la sanguinosa indignazione che avrebbe potuto metterci un cattolico latino. E' un abbandono quasi sol tanto fisico, un privilegio dato alla Musica e, nella storia, alla Ingenuità Disarmata, al disinteresse hippìe. Se Cristo appare ridotto al rango esclusivamente umano, ed è preponderante la figura di Giuda, non bisogna cercare negli autori motivi ideologici più elaborati di quanto semplicemente appaia. Jewison ha avuto un'eccellente trovata, portando la troupe di attori e ballerini nel deserto, costringendo un arso panorama di Terra Santa come sfondo della recita. Gesù è un uomo biondo e mite, che canta come Battisti, Giuda un attore negro che ha conosciuto i Black Panthers, il giudice Anna un baritono che sa le perfidie del melodramma, Erode un re da rivista che piacerebbe a Carmelo Bene. Nessuno parla, tutti cantano secondo il libretto inglese, solo le didascalie dell'edizione italiana, com'è giusto, aiutano gli spettatori. Il meglio di Jewison è nell'impaginazione del racconto, nel collage delle scene, nell'amplificazione retorica della seconda parte che assume qualche volta veste di commozione. Non stonano, sulla scena desertica e cosparsa di ruine, i simboli del male presente nel mondo, jet e carri armati.

Luoghi citati: Francia, Messico, Stati Uniti