Lunga illusione del concordato

Lunga illusione del concordato LA DIPLOMAZIA DI PIO XII Lunga illusione del concordato Gennaio 1937. I tre cardinali della Chiesa tedesca e i due vescovi di Berlino e di Munster si recano nella Roma vaticana. Oggetto della missione: la situazione disastrosa della comunità cattolica nel Reich hitleriano, il totale fallimento del concordato stipulato dal Vaticano col nascente regime nazista fin dal luglio del 1933, quasi crisma e consacrazione del nuovo prorompente potere senza neppure le giustificazioni della questione romana, e gli zig-zag del negoziato con Mussolini. Segretario di Stato è oggi come nel 1933 Eugenio Pacelli, l'allievo di Gasparri che ha tratto dal maestro la fede illimitata nelle norme concordatarie e si è illuso di estenderle ad argine e freno contro ^anticristo» nazista. Pessimista nel 1933, quando ha sottoscritto i patti col neo-dittatore, più pessimista oggi che nessuna di quelle norme ha resistito alla prova, travolta dallo sprezzante « pragmatismo » nazista, pago del riconoscimento ottenuto dal Vaticano e ben deciso a non ricambiare il servigio. I cinque presuli dipingono la situazione cesi com'è: senza forzature, perché in taluni prevale ancora la speranza di un estremo aggiustamento con Berlino, ma anche senza attenuazioni. Vescovi impediti; diocesi senza titolare; impacci e interdizioni all'insegnamento cattolico; l'ondata anti-ebraica che avanza e investe anche le sponde cristiane... Le note di protesta che partono dal Vaticano rimangono quasi sempre senza risposta. Si studiano i rimedi. Si vorrebbe evitare ogni rottura definitiva col potere costituito; ci si contenterebbe di « concessioni anche minime », più formali che sostanziali. Lo scetticismo dei vescovi è superato da quello di Pacelli. Per il segretario di Stato, che ha pur legato il suo nome a quel concordato sfortunato e inoperante, « siamo in lotta », non c'è nessuna speranza — sono sue parole testuali — di ottenere «alcun risultato appena appena rassicurante né da trattative né da qualsiasi altro genere di tentativi o di tatticismi. A Berlino si mira non alla semplice repressione del cristianesimo, ma al suo annientamento ». Eppure le conclusioni che Pacelli trae dal suo quadro fosco e apocalittico, senza illusioni, sono inclini al compromesso e alla moderazione: temporeggiare, non rompere, non uscire dal quadro delle pattuizioni concordatarie, di scarsa o nessuna efficacia ma preferibili ad una linea di rottura, priva di alternative. E' esattamente la stessa posizione che ha caratterizzato il segretario di Stato nei mesi, troppo rapidi, troppo frettolosi, in cui è stato stipulato il concordato col Reich all'alba del nuovo regime: anche allora intuizione del carattere intimamente anticristiano del nazismo (con maggiore lucidità all'inizio dello stesso pontefice Pio XI), anche allora disprezzo profondo per Hitler; ma pure allora disperata ricerca di un accordo, di un « modus vivendi » calato in un testo scritto, in un qualcosa di resistente al capriccio o alla volubilità del dittatore, dell'altra parte contraente. « Se il governo tedesco avesse violato il concordato, e ci si poteva assumere con sicurezza che lo avrebbe violato, il Vaticano sarebbe stato almeno in possesso di un trattato su cui fondare le proprie proteste »: cosi aveva detto Pacelli all'ambasciatore britannico presso la Santa Sede appena tre settimane dopo la firma del concordato col Reich, sottoscritto, per Hitler, da Von Papen, il tenace e ostinato tramite fra la destra cattolica e il potere nazista. Èra un'illusione, di cui la storia dimostrerà tutta la fragilità e inconsistenza. Ed è l'illusione che torna nel libro, drammatico e stimolante, che un illustre storico austriaco, un cattolico della vecchia scuola amante della verità prima che dell'apologetica, Friedrich Engel-Janosi, ha pubblicato recentemente a Monaco (Vom C.baos zur Kalastrophe) e di cui esce in questi giorni la traduzione italiana, da me stesso promossa per la collana «Quaderni di storia» della casa Le Monnier, Il Vaticano fra fascismo e nazismo. Fede nella norma scritta? Devozione illimitata alla causa dei concordati? « Historia concordatorum historia dolorum »: il vecchio detto non fu mai tanto vero come nel caso della parabola hitleriana. Pacelli aveva ottenuto la porpora nel 1929, poco dopo il successo del concordato con la Prussia cui aveva pazientemen¬ te e tenacemente lavorato, in quel malinconico autunno della Repubblica di Weimar. Era rimasta in lui, come del resto in papa Ratti, l'illusione che gli strumenti concordatari costituissero uno scudo valido per gli interessi della Chiesa. Engel-Janosi adombra la fondamentale «duplicità» del futuro Pio XII: convinto come nessuno della impossibilità di convivenza fra cattolicesimo e croce uncinata e deciso come nessuno a non abbandonare la via del negoziato. In effetti, nell'arco di anni che va dal 1931 al 1939, allorché papa Ratti apre gli occhi sulla realtà dei regimi fascista e nazista, il suo segretario di Stato svolge una costante e quasi puntigliosa opera per svuotarne o temperarne i propositi di lotta, i programmi di battaglia, verso Berlino non meno che verso Roma. La mentalità giuridica dell'antico nunzio in Baviera — un uomo che ha sempre attribuito un'importanza grandissima alla diplomazia, quasi come categoria dello spirito —, la sua fede nei concordati, negli impegni scritti, firmati e ratificati, emergono come la caratteristica dominante destinata a riflettersi nel corso di un intero pontificato. Negoziatore instancabile, Pio XII. Capace di impuntarsi su un particolare, di irrigidirsi su una virgola (« se mancava una virgola, c'era da credere che crollasse il Vaticano », disse di lui un prelato che gli era stato assai vicino). Formato alla scuola di Gasparri, che aveva assegnato un'importanza determinante all'ordine giuridico nell'ordine mondiale; e quindi persuaso che alla lunga il diritto avrebbe prevalso sulla forza bruta, che la legge avrebbe vinto sull'irrazionale. Meticoloso fino alla pignoleria; osservante delle forme fino al ritualismo. Abituato a studiare tutto, anche i gesti delle sue udienze, anche le varianti dei saluti protocollari indirizzati alle folle dei pellegrini. Tormentato nelle correzioni; puntiglioso nella ricerca dell'aggettivo più adatto, dell'espressione più congrua. Ipersensibile sul piano della dignità formale, con una punta di individualismo esasperato alla ricerca di esecutori e non di collaboratori. Dominato da un orrore per lo scandalo, da una repugnanza per le grandi masse, da un'autentica idiosincrasia per tutto ciò che fosse plebeo o popolaresco. Non privo di complessi verso la vecchia aristocrazia: lui che apparteneva ad un « generone » romano appena patinato da fresca nobiltà. Uomo che rimpiangeva il mondo del vecchio impero austro-ungarico, il « mondo d'ieri ». Non avevano tutti i torti quei vescovi italiani incerti sulla sua candidatura al Con¬ clave del '39 quando lo giudicarono «uomo di pace», inadatto ai tempi calamitosi della guerra imminente. Un altro Papa — dice Engel-Janosi, che pure non è storico incline al rifugio nei «se» — si sarebbe comportato diversamente nel caso dei boemi, nel caso della nazione polacca, « semper fidelis », ed anche nel caso degli ebrei, « su cui pesava indicibilmente da quattro secoli un pregiudizio razziale troppo poco avversato dalla Chiesa ». Un altro Papa: ma Pio XII operò con tutto il rigore di una personalità, in cui la fede nella norma trascendeva ogni empito di passione, quasi spegneva ogni fremito di sdegno... Cosa rimaneva, agli inizi degli Anni Quaranta, di quella politica dei concordati in cui Pacelli aveva riposto tanta illimitata fiducia? Il concordato con l'Italia non potè evitare, nonostante gli assidui sforzi della diplomazia pontificia e i passi dello stesso pontefice sulla monarchia e sul fascismo, la funesta decisione di Mussolini di impegnare l'Italia nel tremendo conflitto. I rottami del concordato con Hitler non bloccarono le persecuzioni ai cattolici né attenuarono le mostruose stragi degli ebrei. Il silenzio sulla Polonia non scongiurò il massacro, da entrambe le sponde, della classe dirigente cattolica di quella sfortunata nazione gloriosa. I simulacri di concordati con le repubbliche baltiche non ritardarono neanche di un attimo l'incorporazione, decisa fra Hitler e Stalin, di quegli avamposti della vecchia Europa anseatica nella grande confederazione sovietica. Le speranze concordatarie si identificavano con un ammasso di macerie, alle soglie della seconda guerra. E per ristabilire l'equilibrio, papa Pacelli dovette volgersi dall'altra parte, aprire quel singolare e significativo carteggio col presidente degli Stati Uniti, Roosevelt: l'unico che, non conoscendo di persona il pontefice e il suo gelo sulle amicizie, credette di poter firmare una lettera « a good friend and an old friend». Non è più storia di ieri, è storia di oggi. E la lunga illusione concordataria si prolunga sulla vita italiana, si protende nelle prove imminenti che attendono il nostro Paese, mescolando la sopravvivenza dei Patti Lateranensi al nodo del referendum sul divorzio, rimettendo in discussione quegli equilibri che il dopoguerra aveva contribuito a correggere o a ristabilire. E tutto sembra vacillare intorno a noi, mentre la norma scritta, sacra a Pio XII, non basta più ad incanalare i fermenti, non diciamo della coscienza laica, ma ormai della stessa coscienza cattolica. Giovanni Spadolini