Diplomatici espulsi Polemica Urss-Cina di Paolo Galimberti

Diplomatici espulsi Polemica Urss-Cina Diplomatici espulsi Polemica Urss-Cina Cacciato un impiegato cinese, che già stava lasciando la Russia - Nota di protesta (Dal nostro corrispondente) Mosca, 22 gennaio. Con l'espulsione di un impiegato dell'ambasciata cinese a Mosca — peraltro non ancora confermata ufficialmente — e una nota di protesta del ministero degli Esteri, consegnata ieri sera all'ambasciatore di Cina, il governo sovietico ha replicato all'espulsione da Pechino di cinque cittadini sovietici, accusati di spionaggio. Sia il tono della nota che il gesto di rappresaglia appaiono moderati. Il cinese espulso stava già lasciando spontaneamente l'Unione Sovietica per fine missione, tanto è vero che il provvedimento gli sarebbe stato notificato sul treno Mosca-Pechino durante la tappa siberiana di Irkutsk. La sorpresa dell'impiegato cinese sarebbe stata tale da sconfinare nell'ilarità. «Ma io stavo già andandomene per conto mio », avrebbe risposto ai funzionari sovietici. Il governo sovietico sembra voler evitare che questo incidente diplomatico alimenti la tensione con Pechino, aprendo anche sul piano dei rapporti interstatali quella frattura insanabile che già esiste a livello ideologico. Questa distinzione su due piani paralleli dei rapporti con la Cina è stata osservata anche dal ministro degli Esteri Andrej Gromyko nel recentissimo discorso di Erevan, pronunciato quando l'incidente era già scoppiato, anche se non era ancora di pubblico dominio. Gromyko ha detto che l'Unione Sovietica ritiene possibile una normalizzazione delle relazioni con il governo cinese, anche se la Cina non dimostra alcuna buona volontà. Piuttosto, il Cremlino tende a sfruttare il «caso» sul piano propagandistico. Tutti i giornali hanno pubblicato stamane, con buona evidenza, la nota di protesta del ministero degli Esteri dell'Urss per denunciare all'opinione pubbli- ca sovietica «l'ostile propaganda antisovietica» della Cina. Il seme di questa propaganda è destinato a germogliare facilmente nel fertile terreno dei sentimenti anticinesi, basati su un marcato fondo razzistico, dei russi. Perciò, la nota sovietica abbonda nella descrizione dei maltrattamenti e delle umiliazioni sofferte dai cinque sovietici (due diplomatici con le rispettive mogli e un interprete) a Pechino. Essi — secondo il documento del ministero degli Esteri — sono stati malmenati dalla folla, aizzata dagli attivisti del partito, condotti in manette in stazioni di polizia, dove sono stati interrogati con metodi brutali, minacciati di morte per fucilazione al fine di estorcere loro «una confessione sulle loro attività spionistiche». Per quattro giorni, i cinque sovietici sarebbero stati tenuti segregati dai funzionari dell'ambasciata sovietica a Pechino, nonostante le insistenti richieste dell'ambasciata stessa per avere informazioni sulla loro sorte. La moderazione della risposta sovietica non cancella l'impressione che questo incidente abbia fatto precipitare le relazioni tra Mosca e Pechino al punto più basso dopo le ripetute bavaglie sull'Ussuri e nel Sinkiang del 1969. Dall'apertura del negoziato per regolare il problema delle frontiere contese, alla fine del 1969, tra i due Paesi non vi era stato alcun serio incidente diplomatico (com'era invece consuetudine all'epoca della rivoluzione culturale cinese) e gli scontri militari erano diventati molto sporadici e di scarso peso. Ma l'espulsione dei cinque sovietici da Pechino non fa altro che confermare la pessima qualità dei rapporti cinosovietici. Tra i due giganti del comunismo mondiale sembra esservi un'incomunicabilità assoluta, tanto è vero che le trattative sulle frontiere, dopo essersi trascinate stancamente per quattro anni, si sono ora completamente arenate. Il capo della delegazione sovietica Iliciov è tornato a Mosca dal luglio dello scorso anno, riprendendo le sue funzioni di viceministro degli Esteri specialista in problemi del Terzo Mondo. Recentemente, in una conversazione privata, alcuni esperti sovietici di affari cinesi hanno detto che «non è possibile parlare di trattative quando non esiste neppure una parvenza di dialogo». Paolo Galimberti

Persone citate: Andrej Gromyko, Gromyko, Iliciov