Kennedy III

Kennedy III CONVERSAZIONI AMERICANE Kennedy III Vi sono uomini che non possono essere interrogati, perché sanno ben poco di se stessi. La maggior parte di quello che sanno lo hanno appreso, si può dire, dagli altri. E" ciò che si chiama l'immagine. Il resto è difficile dirlo perché subisce una censura tremenda, la differenza fra se stessi e l'attesa che continua a crescere intorno. Conoscono la loro vita meno degli altri, anche se hanno un grande potere. Come in una situazione magica, questo potere può essere usato solo fuori e non dentro la propria vita. Come dire: mai per se stessi. Ted Kennedy è uno di questi uomini. Non ha più nessuno alle spalle, e migliaia di interpreti di fronte, come un libro o un'opera d'arte. Lo abitano i suoi fratelli, la loro immagine e i tratti di somiglianza. E una atmosfera che era di famiglia e di clan e poi è diventata un'epoca, l'immagine di un intero Paese, cioè il « kennedismo ». Ted Kennedy, nel suo ufficio di Washington, sorride, stringe le mani, cerca libri, mostra fotografie. Ma la concentrazione sembra gli sia penosa o difficile. Succede questo. Poco dopo la prima domanda guarda nel vuoto, resta un momento in silenzio e poi dice: — Potrei ricominciare da capo? Si muove da una parte e dall'altra, circondato di bellezza e di affetto. Gli occhi che lo seguono cercano sempre di sapere quali di questi gesti porterà conseguenze. Guardo Dick Drayne, il suo addetto stampa da dieci anni. Drayne se ne sta seduto nel vano di una finestra. Una o due volte sembra pronto a scattare per un intervento di urgenza. Ma resta seduto sul davanzale col mento appoggiato a una gamba. Dalla sua scrivania nell'ingresso una ragazza di un biondo adolescente muove gli occhi e la testa per non perdere di vista il suo senatore. Grandi passi, grandi piedi, attraverso tre stanze piene di facce. Ci sono facce di John e di Bob su tutte le pareti, e facce di tutti i loro bambini, come la tappezzeria di un mondo interiore. — Parlavamo di dieci anni fa, dei tempi del presidente... Due uomini compaiono nel vano della porta aperta. Kennedy si alza di scatto, poi torna a sedere, rendendosi conto di non averli mai visti. Comunque la risposta che aspetta arriverà per telefono. Con la mano graffiata da qualche esercizio sportivo (la vela nel gelo di Cape Cod o la marcia in un bosco) tocca spesso il microfono, a volte sollevandolo per sentire il suono continuo, la prova che il telefono è libero. I due, sento dire dall'anticamera, sono informatori di qualche agenzia. Hanno saputo che era in corso un'intervista del senatore, chiedono se riguarda Watergate o se ci saranno dichiarazioni. Dicono che aspetteranno nel corridoio. Senza muoversi dal suo angolo, Drayne ordina alla ragazza di chiudere la porta. Abbiamo tutti la sensazione di essere personaggi o comparse di uno strano copione. Davanti alla faccia piatta e marmorea di Washington che si vede dalla finestra, nessuno sa a quale punto della storia siamo arrivati. Il protagonista guarda se stesso con disagio. Un uomo giovane, nato per essere felice — lo dice quella sua robustezza fatta per misurarsi con la natura — torna da due funerali. Nel film che abbiamo dentro la testa i proiettili gli sono passati vicino, Ted Kennedy si tocca le tempie, poi scende con le dita fino al collo e alla nuca. Alza gli occhi e sorride. Li abbassa e resta inchiodato alla sagoma nera del telefono. * ★ Un suo amico mi ha detto: alle cerimonie e alle feste arriva presto, prima che ci sia molta gente, e va via quasi subito. Dopo pochi minuti sente stringersi il cerchio. « Senatore, ma è vero... », Kennedy cerca la mano della moglie e l'uscita. Sorride sopra le teste degli altri, centimetro per centimetro impiega la sua forza per arrivare alla porta. Poi viene in una stanza come questa, con Li moquette chiara, gli oggetti eleganti, la faccia di John, di Bob, di bambini belli e felici, e tutti guardano lui, dovunque vada a sedersi. In molte fotografie ci sono mani alzate, tese o puntate, come in una strana collezione di ex-voto. Le inani dei fratelli nell'ultimo comizio, le mani di King che pregano, le mani di Cesar Chavez che lo indicano ai contadini messicani che raccolgono l'uva in California, le mani di una folla schierata lungo una strada o contro la rete di un aeroporto, per toccare lui o i suoi fratelli, dieci anni fa o l'altro mese. Quando Kennedy si muove come un prigioniero nervoso, facendo alzare di scatto le teste di coloro che lo circondano e lo scrutano sempre, forse pensa: non si può vivere imbalsamati in un sogno. Guardando il telefono sta pronunciando le parole dell'intervista, con la voce cavalleresca e aggressiva dei Kennedy, in cui sembra di sentire la risonanza di una sala grandissima e il respiro della folla in attesa. — In politica non si dovrebbe mai perdonare agli assassini della speranza. La speranza genera fiducia e la fiducia partecipazione. Partecipazione vuol dire tutti o nessuno. Un mondo per pochi è un mondo già condannato. La grandezza del sistema politico americano consiste nel rendere queste cose possibili, non sicure. Il sistema americano è una promessa. Se la promessa non si compie, e anzi si lavora a farla diventare impossibile, perché la gente dovrebbe crederci? Si può vivere di memorie, di speranze, di attesa. Ma non per sempre. Ecco dove nascono lo scetticismo e il cinismo, quando in certe epoche infelici della storia si fa appello ai sentimenti più bassi, alla paura, alla solitudine, alla frustrazione... La gente spaventata è terribile... Eppure è la stessa gente che sarebbe capace di costruire il mondo da capo. Un mondo... ★ ★ Il suo sguardo gira sulle pareti come dentro le stanze di una casa in cui non si abita più. Rivisitarla porta gioia, nostalgia e dolore. Forse è una visita che bisognerebbe avere il coraggio di non fare. Ma milioni di mani spingono dentro il sacrario. — Penso che c'è stato un gran cambiamento, una grande differenza da allora. Allora negri e bianchi, portoricani e indiani... Nei ricordi trova calore, usa le mani per far vedere come era fatto quel mondo. — Leggi importanti, tutte le leggi per i diritti civili, sono nate allora, anche quelle approvate dopo, con Johnson. Il conflitto era enorme, la gente capiva. C'erano due obbiettivi: l'eguaglianza razziale e una economia senza poveri. Ci vuole poca immaginazione... Gli occhi centrano il punto, il discorso va dritto, di colpo siamo tornati al presente. — ... ci vuole poca immaginazione per decidere che si deve restituire dignità e diritti a chi è stato tagliato fuori. La politica e l'economia non sono la natura dove uno ha le gambe lunghe e l'altro le ha corte. E nessuno ne ha colpa. Dove c'è povertà vuol dire che c'è spreco, nelle società industriali. Tutti i dislivelli e le ingiustizie sono stati fatti da uomini contro uomini. Perciò il compito di riparare il guasto non è impossibile perché è umano. Gli uomini possono costruire quello che gli uomini hanno distrutto... Il Vietnam... Il Vietnam è una tragedia che non avrebbe dovuto esserci, non sarebbe mai arrivata a quel punto con quel mare di distruzioni... Ted Kennedy arretra nel sogno, cerca sulle pareti altre frasi e altre risposte. Ma le facce, dalle pareti, sembrano chiedere a lui la sua decisione. C'è un lungo silenzio perché il telefono che ha sotto la mano, la sua linea diretta, ha suonato. Nell'altra stanza qualcuno ha preso la linea. Kennedy si costringe a un sorriso. Cerca il tono rapido, esatto, un po' anonimo, delle dichiarazioni ufficiali. — Bene, il mio primo pensiero è che si preparano giorni migliori. Alcune cose che sembravano impossibili sono accadute, perché non potrebbero accaderne altre? Per esempio, quando mio fratello diventò presidente si pensava che la guerra fosse una specie di maledizione inevitabile. Alla fine della sua presidenza era un rischio possibile. Adesso la mediazione è diventata un ragionevole strumento per governare. Prima di Kennedy c'era la guerra fredda e il continuo pericolo atomico. Nessuno pensava che i contrasti si possono mediare, che i nemici possono diventare la controparte rispettabile di un accordo... I miei figli, i figli di John e di Bob, penso che abbiano tutti un debito immenso verso il nostro Paese. Spero che i miei figli facciano quello che tanti giovani americani hanno fatto: restituire il privilegio attraverso un impegno politico senza riserve... — Quanto a me, al mio futuro, dovrò decidere se presentarmi o no candidato alla presidenza. Prenderò questa decisione entro un anno, forse anche prima. Ma posso dire già adesso... Questa volta, appena il telefono squilla, la linea viene passata. Kennedy fa cenno a Drayne, che prende un altro ricevitore, da un telefono più vicino. Tirandosi dietro il filo cerca la matita e la carta, comincia a scrivere in fretta. Ma depone la penna, che rotola sul pavimento dal piano inclinato del davanzale. Kennedy dice soltanto « sì » una o due volte e « ho capito ». Alla fine, Drayne entra nella conversazione per dire: « Prima non ci sarà alcuna dichiarazione ». Kennedy ha già deposto il telefono, si è alzato, si è seduto, si è alzato, ed è andato verso una sedia un po' più lontana. Guardando altrove riprende l'ultima frase. Ma, come prima, la lascia a metà. Cerca per qualche minuto poi dice: — E in ogni caso il partito democratico avrà la forza di voltare pagina e di realizzare i progetti che io ho vissuto e condiviso con i miei fratelli. Il rito dell'intervista è finito. Kennedy non ha più fretta, non aspetta più niente. Con le mani in fondo alle tasche va e viene dalla finestra. E' entrata la ragazza bionda e si è seduta in silenzio con il quaderno da stenografa in grembo. Senza rivolgersi in particolare a nessuno Kennedy dice: — Faranno l'operazione al ragazzo fra quattro giorni. Devono tagliare la gamba. — Vagamente, toccandosi sopra il ginocchio, indica il punto. Fur;o Colombo

Luoghi citati: California, Vietnam, Washington