Tra i "tenori,, dell'Emilia di Stefano Reggiani

Tra i "tenori,, dell'Emilia DIETRO IL MITO DI PARMA Tra i "tenori,, dell'Emilia (Dal nostro invialo speciale) Parma, gennaio. La leggenda di Parma, che tormenta in segreto ogni emiliano (e che infierisce su tutti gli italiani sensibili ai miti civici) segna un altro punto: Bernardo Bertolucci, dopo Ultimo tango a Parigi, girerà un film alle porte di casa, afTrontando quasi un secolo di storia locale; Attilio Bertolucci, poeta tra i più fini e padre del regista, sta completando un grande libro di versi (ne ha già scritti novemila) interamente legati alla città. La pellicola di Bernardo avrà per titolo Novecento. «Due bambini — spiega l'autore — nascono agli inizi del secolo, nello stesso giorno, in una fattoria parmigiana: il figlio del padrone e il figlio di un bracciante. Faranno insieme i primi giochi, vedranno gli scioperi agricoli del 1908, parteciperanno alla guerra. Si divideranno di fronte al fascismo, dopo le barricate che Parma impetuosamente eresse nel '22 contro gli squadristi del ferrarese Balbo ». La crisi del mondo contadi no e la decadenza della famiglia padronale si svolgeranno durante la dittatura, come con trocanto privato alla vicenda politica, e precipiteranno nel dopoguerra fino ai giorni nostri. Ci sono già alcuni interpreti: Orson Welles, patriarca della fattoria, Dominique Sanda, Adriana Asti, Laura Betti Mancano i due coetanei. Bernardo è andato a cercarli in America per ragioni produttive; batterà anche la Russia, se necessario. Ma prima ha tra scorso alcuni giorni a Parma per prendere lo stampo sull'originale. ★ * Così avremo lunghe stagioni per parlare della città ed anche il set internazionale, agli inizi dubbioso, ormai si piega all'imposizione. Nella casata Bertolucci, incrocio di due ceppi contadini tra l'Appennino e il Po, si riassume la dittatura di un luogo inimitabile, forse introvabile. Esiste davvero Parma, fuori dei libri e dei film? C'è gente che ci lavora, passio ni politiche, profumo di cap pelletti? Siamo venuti a cercarla in mezzo ad una nebbia fittissima, che non può non avere va lore di simbolo. Dietro la tenda pesante della caligine, in una notte autenticamente padana, Parma ha appena il segno di qualche lampada stradale; la facciata del Teatro Regio s'intravede evanescente, oltre il qua drato della locandina. Questa sera Rigoletto. Nel deserto, qualcuno verrà all'opera? D'improvviso, sbucate dal nulla, centinaia di persone. Un corteo, una processione, la folla di un comizio. I biglietti li tengono i capicomitiva ed entrano sventolando tagliandi e proclamando numeri: « Sei, quattro, cinque, undici». Prima delle otto il teatro è gremito, l'orchestra si schiarisce la voce, il sipario ondeggia di impazienza. Troviamo posto in loggione, solo per rispetto alla nostra qualità di osservatori stranieri. Ma com'è faticoso il mestiere di spia nel cuore di un luogo comune. I famosi loggionisti, terrore delle compagnie di canto, stanno stretti in piedi lungo una specie di camminamento bellico, sporgono tutti insieme orecchi e occhi verso il baratro della platea, ed è rischio calcolato che qualcuno precipiti. Più che applaudire, zittiscono gli intemperanti. Nel buio si ricompone la tipologia delle facce: gli uomini un po' grevi e incisi, le donne con una grazia spigolosa e vorace (come sarebbe quella della parmigiana Paola Pitagora). S'intendono di musica? E' probabile; ma soprattutto sono personaggi d'opera. « La lirica ha interpretato la nostra storia alla metà dell'Ottocento » dice il sindaco. Attilio Bertolucci ricorda le osservazioni di Bruno Barilii sul « paese del melodramma »: i cittadini di Parma sono creature verdiane. Le romanze (« Cortigiani, vii razza dannata », « Questa o quella per me pari sono ») non rappresentano solo una pagina musicale, ma interpretano una piega profonda della psicologia, come lo sdegno verso i sopraffattori o l'ironica autonomia delle scelte. Del resto, anche la vocazione melodrammatica del popolo è stata bene sfruttata dai creatori del mito, insieme con le suggestioni della storia cittadina. Reduci dall'opera e perdurando la nebbia, chiediamo ad Attilio Bertolucci, uno dei maggiori responsabili, come sia nato, rinato in veste moderne, il mito di Parma. « Nel ritratto ideale della città — dice — concorrono due elementi. Da un lato la grazia sottile del Parmigianino, poi tornataci dal Settecento francese, dall'altro un costume generoso e ribelle, durissimo con i peccati, ma tollerante con i peccatori. Dopo la guerra, contro i responsabili fascisti, la giustizia privata lasciò volentieri il posto a quella pubblica. Non ci fu un periodo sanguinoso, come in altre città emiliane». Durante il fascismo, nel clima di rispetto imposto dalla resistenza contro Balbo dell'Oltretorrente, gli intellettuali si dedicarono all'edificazione indipendente del proprio mito casalingo. Negli Anni Trenta Attilio Bertolucci insegnava in un convitto privato, scriveva recensioni cinematografiche, discuteva con gli amici sugli ultimi libri francesi. All'Università approdavano ingegni come Paci, Macrì, Luzi, Borlenghi, Spagnoletti. Il Cineguf proiettava film d'autore. « Quando gli altoparlanti diffusero il discorso di Mussolini con la dichiarazione di guerra, noi stavamo assistendo a Tabu di Murnau. Con Bianchì e gli altri eravamo patiti di cinema, e convertimmo anche Cesare Zavattini che allora preferiva il teatro ». Parma non ebbe gerarchi, il personaggio più popolare fu Guido Picelli, l'antifascista caduto in Spagna, particolarmente amato nell'Oltretorrente. L'aria parmigiana, scarsamente inquinata, consentiva al gusto locale per le parole, fossero le vanterie verbali nei caffè di piazza Garibaldi o, nei più raffinati, l'inclinazione verso la poesia. Venne da Modena Ugo Guanda e impiantò una piccola casa editrice tutta poetica, trovando fertile terreno. «Eravamo spinti — dice Bertolucci — da un forte orgoglio civico ». Forse anche da una mania perfezionistica, da uno snobismo che faceva di Parma la capitale dell'eleganza, con nobildonne calibrate e signori in impermeabile inglese, direttamente importato da Londra. Il brivido campanilistico dura ancora, anche se imprese e sentimenti emigrano nei centri culturali. L'editore Franco Maria Ricci ha lasciato a Parma un club di bibliofili e una galleria d'avanguardia ed ha portato a Milano i suoi libri curatissimi. (Ma in patria gli incontentabili dicono: «Figurarsi, ha ristampato Bodoni in litografia: un vero tradimento dell'originale »). Alberto Bevilacqua sta a Roma, ma coltiva i ricordi parmigiani come fiori sul balcone: la sua città in amore, il suo paese di Cali [Te sono una letteratura tanto contagiosa che merita premi e sollecita imitazioni. Anche se non arresta i rimpianti («Cosa ci risponde il pubblico di Parma, in nome del quale abbiamo dato il meglio di noi stessi? Ci ha davvero seguito, ci segue? O non siamo piuttosto degli esuli?»). Vane parole, non preservano dalla malattia. La moglie dello scrittore, Marianna, ha incominciato a scrivere poesie: « Al mondo non ci sono I altri paesi con questa luce». Baldassarre Molossi, direttore della Gazzetta di Parma, osserva: « La città è severa con i suoi figli, non concede facilmente gratitudine. In chi resta si instaura spesso un rapporto di odio-amore, chi se ne va cede ai sentimenti». Molossi ha un elenco aggiornato di tutti i giornalisti parmigiani « emigrati »: una schiera tanto ampia da coprire quasi un terzo dell'editoria italiana, una mafia nostalgica e fedele, un baluardo di affetti contro il quale nulla può il sarcasmo degli infelici nati altrove. Domenica scorsa gli esuli si sono riuniti in una vecchia osteria ed hanno consegnato a Molossi (qualcuno deve pur rimanere in patria) il premio S. Ilario. Piatti classici, conversazione brillante, ricordi effervescenti come il Lambrusco. Dice il neo premiato: « Anche l'industria da noi si sente condizionata da un certo clima colto. La colpa più grave sarebbe l'errore di gusto ». Infatti il menu del premio è stampato in bei caratteri bodoniani dagli allievi dell'Istituto d'arte. * * La parola, la forma sono sempre più aggressive del contenuto. Francesco Borri, presidente, fra le altre cariche, della Deputazione di storia patria, siede con noi ad una ideale tavola rotonda parmigiana in vista del Battistero dell'Aritelami. Partecipano il presidente dell'Accademia, Carlo Corvi e la direttrice dell'Ente turismo, Gianna Spezia. Il dibattito pone subito in luce le Grandi Idee e i Nobili Vanti: l'eredità ducale di Maria Luigia (soave governante, donna europea, sulla sua tomba a Vienna ci sono sempre fiori freschi da Parma), il professionismo nelle passioni (per cui all'istinto dei loggionisti fa riscontro la serietà dell'Istituto verdiano), l'autonomia politica (che vede in Bologna solo una appendice delle Romagne, un resto di Stato pontificio). Vorremo credere che anche la gastronomia non soffra di questo complesso di specialità? No, affatto: è un'arte tutta parmigiana, distante dalla pesantezza della cucina regionale, moderata nei grassi, precisa nelle definizioni. Borri recita: « Ha mai visto le cattedrali di prosciutti che si alzano nella Valpanna? Conosce le dolcezze di Langhirano, il salame di Felino, la spalla di San Secondo? ». Questi miracoli, per non parlare del celebrato formaggio, si compiono in virtù dell'aria che scende dai monti, salsa di Tirreno e resinosa di foreste. Perfino il culatello ha avuto commerci con la poesia; D'Annunzio lo chiamava « quella salata e rossa compattezza porcina » e per lui si abbandonava « al delirio del Famelico in bellezza ». A tavola si spende forse più tempo a parlare che a masticare. Gli aggettivi sono graditi al palato come lo stracotto. ★ ★ « La polemica, il confronto accompagnano idealmente la giornata d'ogni cittadino — conferma il sindaco, Cesare Gherri —. Noi siamo diversi da tutti gli altri emiliani, siamo un poco anarchici, non irreggimentabili, testardi». Dunque, la Parma della leggenda in realtà non esiste: è una città inventata dai suoi abitanti, è vera e affascinante solo nei discorsi Se per avventura chiudessimo la bocca a tutti i parmigiani « strajè pr'al mond », sparsi per il mondo, ne ricaveremmo forse un ingiusto sollievo. Privata delle parole, che resterebbe di Parma? Il Duomo, il Battistero, la pasta Badila, i vetri Bormioli, la mostra delle conserve, i mobili Salvarani: cose encomiabili, ma incapaci di giustificare una situazione di privilegio. La fierezza cittadina, che alla grazia francese unisce l'autoritarismo asburgico, ha bisogno avido di decantarsi e di abbellirsi. Nel Teatro Farnese, capolavoro di architettura lignea che già si vide in Prima della rivoluzione di Bertolucci, pensiamo ad uno straordinario ritratto della città: una bellezza che sfida i secoli, perché è continuamente curata dagli specialisti. Oggi un gradino, domani una panca, il restauro della memoria. Anzi, il Teatro Farnese è tutto ricostruito, con minuziosa fedeltà, dopo le distruzioni dell'ultima guerra: un inganno benefico, in nome dell'arte. Non diversamente accadrebbe al mito di Parma se qualche incauto tentasse di distruggerlo dal di dentro: Io rifarebbero com'era e dov'era, con quell'entusiasmo verdiano che accomuna i coristi del Regio ai conversatori di piazza Garibaldi. Tutti rapiti sull'onda di una musica che sono i soli a capire, perché la interpretano. Stefano Reggiani