Stazioni di Guido Ceronetti

Stazioni Stazioni Più se ne vedono, di stazioni ferroviarie, più se ne vorrebbero vedere. Quel che c'è fuori degli atrii, delle pensiline, delle banchine, ai lati della loro gigantesca coda di ferro, eccetto alcuni alberghi e pensioni, è poco interessante. Il vero viaggiatore ricerca e visita soltanto le stazioni. Meglio se opprimenti. Gravato dalle rimbombanti cupole di ferro, privilegio delle stazioni autentiche, il cuore si spezza più facilmente. Conservatele. Ricostruitele. Il cielo di una stazione è la sua nera volta ferrata. Sotto quel coperchio, la marmitta ferroviaria cuoce e ricuoce senza fine la sua straziante zuppa d'uomo così ardente che non si può toccarla col cucchiaio né portarla alla bocca senza mortali pericoli. Niente è più umano, perché niente è più terrestre di una stazione. Tutto, là dentro, ci ricorda che non siamo né pesci né angeli, mentre un porto, un aeroporto, un astroporto alimentano le rovinose illusioni di queste impossibili metamorfosi, mettendo con stravaganti trucchi le distese straniere d'acqua e d'aria alla nostra portata. In una stazione ferroviaria sei veramente quello che sei: un rifiutato dell'acqua, un profugo (forse) del cielo molto malvisto dalla sua origine, un composto alchemico di sale, mercurio e zolfo che non sarà mai oro, coi piedi ingloriosamente incollati al suolo (non è il caso di vantarsene), nato e fatto per il treno, proprietario soltanto di quel che può essere contenuto in una valigia. E' un mistero perché tutti gli affetti che legano tra loro gli esseri umani abbiano un veloce soprassalto e un aumento di acuto, di tenero e di morboso sulle banchine di una stazione ferroviaria. La risposta banale è che là si parte e si arriva, e questo fa muovere gli spiriti, sferza le surrenali, dilata e stringe i vasi, agita strepitosamente le note potenze della Tristezza e della Gioia. Questo è vero, ma non mi accontenta. Bisogna risalire ai giorni in cui il signor Edward Pease, industriale minerario, creò la Stockton - Darlington Railway Comp. e i punti di partenza e di arrivo dei treni si trasformarono in Stazioni. L'apparizione della locomotiva deve aver provocato, in tutti e dappertutto, un violento trauma psichico, che si è trasmesso, per le vie cieche, come un'eredità, di generazione in generazione. Il treno fu per tutto il secolo XIX una grave e inedita avventura, un quasi cieco affidarsi a un barbaro corridore senza ossa e sangue, mosso da una forza ignota, avviluppato da un fumo infernale. L'innaturale era entrato nella nostra vita, ed è normale che il suo ricordo si svegli ogni volta che un treno parte o arriva portandoci o allontanandoci attaccamenti, tra singhiozzi, sorrisi, braccia protese e consolazioni sollecite di gola. La stazione è un tapis roulant che fa silenziosamente regredire chi entra verso il punto di una lacerazione irrisolta. Abbiamo visto arrivare migliaia di treni, decine di volti amati partire, ma, di notte, la pace di un fanale apparso sul rettilineo estremo, il suo avanzare sfinito verso il punto di spegnimento e la morte indolore del viaggio, sempre morderà chi aspetta, indifferente a tutto il resto, in fondo alla banchina. E se il treno avesse completamente cambiato l'essere che aspettiamo? Se invece di un padre scendesse un tapiro, se invece di una donna uno spruzzo di acqua gelata? Nelle vecchie stazioni, il Ristoro era tenuto in grandissima considerazione. In genere si mangiava, nei ristoranti di stazione, benissimo. C'era gente che, dopo un matrimonio o un funerale, andava a mangiare alla stazione. Alla stazione li aspettavano cuochi sublimi, piatti sovrani, camerieri con bianchi favoriti e code nere, bicchieri di cristallo finissimo, montagne di frutta esotica matura, vini di grandi annate, gelati, torte, sigari immortali, e prezzi di prima e di seconda classe rigorosamente controllati. Questa magia ristoratrice, che cominciava dalla porta girevole e si protraeva nella soddisfatta memoria, muoveva dal bisogno profondo di medicare la vecchia ferita prodotta nel civilizzato dalla locomotiva. Il pranzo, prima o dopo il viaggio, per esorcizzare la macchina... Trasformandosi questi luoghi di raffinato sollazzo del cuore malato in funerei Bunker per la fornicazione gastrica di massa, la stazione ha ridotto a misure di squallore la sua capacità di risollevare quelli che deprime, mentre l'infelicità nel suo interno continua ad arrivare in perfetto orario, su lunghissime tradotte invisibili, senza mai partire. Il primo treno del Cinematografo è un treno che arriva iasbtnumltrn , e l , a in una stazione. I Lumière lo aspettavano, come ladri, alla stazione di La Ciotat, per rubargli l'immagine in movimento. Quel furto contagiò: il cinema ferroviario nacque come un gemello in ritardo di pochi minuti insieme all'invenzione lumieresca. L'Inghilterra, patria del treno, lanciò una serie di film appassionanti dove non si vedevano che treni passare e sparire. Era una notevole trovata narrativa: perché, in un treno, succede tutto e chi ha visto passare il treno ha visto la vita, la morte, la passione, la fame, la sapienza, il sonno, tutto. Una trama significativa è raccontata da Kiss in the tunnel (1900). In uno scompartimento, un passeggero sta fumando e leggendo il giornale. Di fronte a lui, una giovane signora. Ecco, il treno è risucchiato da un'enorme galleria! Il passeggero getta via sigaretta e giornale, bacia intrepido la sconosciuta. Il treno esce dalla galleria, entra in stazione. Fine. Più realistica è una pittura di Adolf Menzel, intitolata Dopo una notte trascorsa in treno. Una donna dall'aria stanca ma costretta dal suo sesso a una dolorosa compostezza è seduta accanto a un barbuto sbracato di marito col cappello calato sugli occhi e la catena d'oro che gli sussulta sulla pancia. Ci sarà stata freddezza, tra i due, dopo quel viaggio? Ci sono stazioni che sono simboli di potenza. Una di queste è la Centrale di Milano, alla quale tra il 1923 e il 1931 fu dato quello che si dice un impulso decisivo. Vediamo il testo di un apologeta: La politica meschina d'altri tempi avrebbe forse avuto paura di questa grandiosità e avrebbe lasciato incompiuta la mole troppo superba. Quella d'oggi ha compreso che le affermazioni di potenza vogliono pure i loro simboli e le loro testimonianze (Filippo Tajani: Storia delle ferrovie italiane, Garzanti 1939). Penso con angoscia a quella mole troppo superba, lasciata tristemente incompiuta dalla paura dei meschini. Forse, quando compose La géante, Baudelaire divinava Milano Centrale. Treni e stazioni attiravano profondamente Tolstoj e si può quasi ascoltare, nelle musicali parti ferroviarie di Anna Karenina e di Resurrezione, in fondo alla ricca percezione delle realtà umane che s'impigliano con sterminati capelli nei punti terminali delle strade ferrate, il canticchiare astuto del destino che lo chiamava a Ostapovo. Le stazioni tolstoiane hanno il nitido formicolare e l'anima prensile di certe vecchie fotografie dove la vita immaginata e la vissuta si baciano più fortemente, con intorno la solennità da cattedrale e il mantice grosso del dramma. Indimenticabile la partenza dei forzati dalla stazione di Mosca, il suicidio di Anna nella stazione di Obiràlovka. Sfilano i vagoni con le grate ai finestrini e le teste rase degli uomini affacciati; dalle carrozze delle deportate esce il gemito di una partoriente, la Màslova sorride triste cogli occhi strabici. Quando Anna arriva a Mosca, un vecchio ferroviere finisce sotto le ruote. I fischi delle caldaie, le campane di partenza, il telegrafo, i facchini, la neve che sbatte contro i finestrini, il vapore ghiacciato, i plaid, le pellegrine, i manicotti in continuo movimento, i macchinisti coperti di brina, sono i ritmi misteriosi e regolati di una vita claustrale. Stazione ferroviaria, convento? Anna incontra il misterioso contadino dei suoi incubi, fugge la folla degli altri passeggeri come lebbrosi, si ricorda del vecchio schiacciato quando il suo amante le sorrideva per la prima volta, cerca un punto esatto tra le ruote di un treno merci, si fa il segno di croce come se entrasse nell'acqua. La madre di Vrònskij, sul treno dei partenti per la guerra serba, commenta che è stata una morte vile e bassa. L'osservazione è giusta. Buttarsi sotto un treno non è un suicidio aristocratico. La macchina di Stephenson non è il bagno di Petronio. Tolstoj fuggiasco da casa, con una polmonite senza scampo, agonizza per cinque giorni nella camera del capostazione di Ostapovo. Sofia Andreevna, arrivata due giorni dopo il suo ricovero, è ospitata con un'infermiera nello stesso vagone speciale che l'ha portata, su un binario morto. La stazione si riempie di gente: figli, amici, giornalisti, fotografi, discepoli. II telegrafo ronza ininterrottamente. Arriva anche un inviato del Santo Sinodo per convincere l'implacabile apostata a convertirsi. Il 7 novembre 1910, alle 5,45 del mattino (l'ora dei primi treni), la piccola stazione di Ostapovo annuncia alla Russia che Tolstoj è morto. I giornali escono listati a lutto, i teatri chiudono, non si tengono lezioni nelle Università. Guido Ceronetti

Luoghi citati: Inghilterra, Milano, Milano Centrale, Mosca, Russia, Sofia Andreevna