"Francesca da Rimini,, in scena al Teatro Regio di Massimo Mila

"Francesca da Rimini,, in scena al Teatro Regio "Francesca da Rimini,, in scena al Teatro Regio Il "dugento,, di Zandonai Il deprezzamento critico del musicista e il persistente favore del pubblico per l'opera Successo dello spettacolo, grazie anche ad alcuni interpreti: Raina Kabaiwanska e Aldo Protti - L'esecuzione diretta da Fulvio Vernizzi, regìa di Franco Guandalini Che cosa resiste nella Fran-1 rcesca da Rimini di Riccardo | rZandonai, rappresentata l'altra sera al Regio, a sessantanni esatti dalla sua creazione nel medesimo teatro? E quali sono le cause del lento ma inesorabile deprezzamento critico a cui va incontro la quotazione dell'artista? La statistica diligentemente apprestata in quest'occasione da Giorgio Gualerzi e Carlo Marinelli Roscioni mostra che l'opera fu rappresentata in 176 teatri. Di queste rappresentazioni, 122 si pongono nel primo trentennio, e soltanto 54 nel secondo. Perché questo regresso di un'opera che pure, ad ogni ripresa, mostra di essere ancora gradita al pubblico .tanto che si farnetica spesso d'una specie di congiura d'intellettuali malignamente esterofili e succubi dell'avanguardia, contro una gloria del melodramma nazionale? Più di cinquant'anni fa aveva fornito la diagnosi esatta Giannotto Bastianelli in un saggio della rivista «Il Convegno», ora opportunamente ristampato nella «Nuova Rivista Musicale Italiana». Bastianelli stava dalla parte dell'arte moderna, ma sapeva piegarsi con comprensione verso quei valori di cultura popolare che più tardi Gramsci indicò nel melodramma tradizionale. All'attivo di Zandonai, egli riconobbe con sicurezza, ci sia «il senso del teatro», e ci sta la nazionale, uralianissima «attitudine a far cantare la voce umana». Creazione di personaggi concreti attraverso il canto, come Gianciotto, «magnifica figura operistica di marito rozzo, innamorato e, naturalmente, tradito, che nel quarto atto raggiunge la forza di certi cupi personaggi verdiani». E aggiungiamoci pure, di nostro, il bieco Malatestino, che l'autore ha gratificato d'una sua vocalità inconfondibile, e in parte la protagonista. Che cosa non va? Lasciamo da parte le smancerie datatissime del testo dannunziano. Nella musica quel che infastidisce sono le «manie modernistiche» tradotte in una «pertinace e caparbia tendenza alla wagnerìzzazione sinfonica». Il saccheggio sfrenato di Tristano e dell'Anello del Nibelungo, la pletora di note superflue indotta dal fenomeno della tardiva assimilazione del wagnerismo nel provincialismo del melodramma italiano. Purtroppo i conti con la Storia, presto o tardi, si debbono fare. Il guaio è appunto quando si fanno in ritardo. Ciò portò l'artista a tradire le sue qualità native, «giacché la sua vera novità è nella vocalità, è nella spontaneità melodica, è nello sgorgo di pagine spesso chiare e fresche, sempre movimentate e trascinanti». Prova ne siano certe melodie fortunate, come l'«In ghirlandata di violette» di Paolo nel terz'atto, e soprattutto certi hors d'oeuvre ornamentali, come i coretti femminili fuori scena del primo atto, dove la musica, momentaneamente sollevata dalla servitù inesorabile all'azione scenica, riesce finalmente ad affermare un poco l'autonomia dei propri valori. «Bellissimo — scrive il Bastianelli — il preludietto all'italìanissìma canzone ballo del terzo atto, vera e propria miniatura di frontespizio a un libro di versi latini della Rinascenza». Intendiamoci: il preludietto strumentale, non l'infernale canzone a ballo delle donzelle, che è invece uno dei peggiori documenti di quel «dugento di cartapesta» legato dall'Immaginifico all'imprudente musicista. Ma l'opera continua a piacere anche per i difetti, oltre che per le sue poche, ma innegabili qualità. Il dugento di cartapesta solletica il pubblico con l'evocazione di dantesche reminiscenze liceali, e lo sfrenato wagnerismo della partitura usurpa l'ammirazione che a Wagner si deve, per la legge economica che la moneta cattiva scaccia la buona dal mercato. Il successo non è mancato nemmeno questa volta, grazie anche all'eccellenza di alcuni interpreti. Mirabile Francesca è stata Raina Kabaiwanska, questa graziosa bulgara che l'anno scorso, in Manon Lescaut, si è conquistata il cuore dei torinesi. Nel pieno fiore delle sue qualità vocali, in quel magico punto d'equilibrio dove la raggiunta maestria non ha ancora appassito la freschezza giovanile dei mezzi, vive il personaggio con la dedizione di un completo abbandono e d'una fiduciosa immedesimazione. Sta così bene nei suoi abiti di castellana, che ci riconcilia perfino con la paccottiglia dugentesca. Alla fine del primo atto, quando porge la rosa a Paolo il bello, resuscita tutto il clima di un'epoca, dove Gabriele D'Annunzio tende la mano a Francesca Bertinì. Bravissimo anche, formidabile, il baritono Aldo Protti (magari ce l'avessimo avuto a cantare Rigoletto!), cosi bravo da far nascere il sospetto che questo Gianciotto sia davvero un grosso personaggio. Paolo è 11 giovane tenore Blas Martinez, vincito- pEpvame re di qualche concorso vocale radiofonico o televisivo e, pare, al suo esordio teatrale. E' molto simpatica quest'apertura generosa verso i giovani, tuttavia bisogna fare attenzione a non trasformare il Regio in un teatro sperimentale. Una volta gli esordi avvenivano nei teatri minori. Anche Caruso — si dice: Caruso — non debuttò al San Carlo, ma in oscuri teatri napoletani come il Mercadante e il Bellini, facendosi poi una dura gavetta in piazze come Caserta, Trapani, Salerno. Abbastanza efficace il tenore Franco Ricciardi a schiz¬ zare la bieca figura di Malatestino; bello il colore vocale di Anna Di Stasio nella parte della schiava Smaragdi. Al soprano Edda Vincenzi, nella parte della sorellina di Francesca, e ai soprani Ida Farina e Giovanna Santelli, ai mezzosoprani Anita Caminada e Gloria Foglizzo, nelle parti delle quattro donzelle, non faremo il torto d'addebitare intera la smanceria insopportabile di ruoli che sono brutte copie sbiadite, rispettivamente, della Crisotemide straussiana e delle Figlie del Reno. Meglio servite, comunque, le parti minori maschili, da Florindo Andreolli, Gianni Maffeo, Renato Ercolani, Bruno Dal Monte, Ivan Del Manto. Il coro, istruito da Tullio Boni, ha poco da fare in quest'opera, mentre moltissimo, troppo ne ha l'orchestra, che Fulvio Vernizzi ha governato con mano sicura. Le scene di Lorenzo Chiglia ricorrono a grandi panneggi per evitare il color locale di un medioevo alla Sem Benelli, e la regìa di Franco Guandalini muove abbastanza bene i personaggi singoli (solo con qualche eccesso di cascatoni e strascinamenti per terra), ma fallisce completamente la battaglia del secondo atto, al punto di rendere incomprensibili le azioni e le parole dei personaggi (difatti molti tagli si sono dovuti operare in questo atto). Anche qui, pare, per il desiderio di « smedioevajizzare ». Ma se non piace il Medioevo (e siamo d'accordo), perché rappresentare Francesca da Rimini, e non Lulu di Alban Berg, o Johnny spielt auf di Krenek, con tutte quelle belle locomotive in scena? Massimo Mila

Luoghi citati: Caserta, Rimini, Salerno, Trapani