Tra i misteri dell'arte-gioco

Tra i misteri dell'arte-gioco Tra i misteri dell'arte-gioco Nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese, fasti e capricci dell'avanguardia si scontrano con il buon senso riduttivo dei romani - Affiorano subito certi limiti: l'uomo nudo si è spogliato solo alla vernice, due gemelli sono disponibili solo alla festa, i cespi di lattuga marciscono - "Per il pubblico, la forma più attiva di partecipazione è il furto" Roma, gennaio. « Quando mi son tolto l'ultimo indumento, ho sentito una voce di donna, anzi di signora, sgomenta: "Ma quello è nudo", diceva, senza crederci, come fra sé ». Coperto adesso dì pellicce, bevendo tè alla menta, Gianni Macchia racconta con qualche furbo-ingenua civetteria come ha sbalordito il pubblico romano di ti Contemporanea », la rassegna antologica dei fasti, capricci e sussulti dell'arte negli Anni Sessanta, allestita nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese snobbato e disertato dagli automobilisti. Lui al nudo è abituato, spiega: « Per strano destino o requisiti fisici, il cinema m'ha sempre visto in situazioni di amante: a volto bagnino, a volte no. Tre film ho interpretato, Brucia ragazzo brucia. Una storia d'amore, Sensualità, tre volte son finito in tribunale, tre volte condannato in prima istanza: ero sempre nudo. Però la nudità al vivo, tra la folla... è diverso ». Davanti ai visitatori della mostra ha interpretato un « evento » del barese Vettor Pisani, e lo descrive così: « Nudo, faccio su un tavolo una scena rituale impersonando il mito dell'androgino. A terra, avvolta in lenzuolo, una donna morta cui l'eroe ha sottratto gli attributi: infatti porto una specie di mezza corazza laminata d'oro a forma di seno femminile. In sottofondo, rumore di mare: all'origine volevamo collocare l'azione su spiaggia nella notte di luna piena, purtroppo in questa stagione fa freddo. Io mangio cioccolata, che nel mondo alchemico ha un suo senso erotico e potere afrodisiaco: tanto è vero che una volta Pisani espose la Venere di Milo tutta ricoperta di una patina di Nestlé. Nudo sul tavolo, vivo supino in atmosfera magica muovendomi lentamente ed emetto urli riuscendo a produrre suoni gutturali assai strani: per un'oretta, un'oretta e mezzo ». Il simbolo Una bella faticata: « Ho infatti preteso una sia pur simbolica cifra di pagamento ». Sarebbe? « Un milione ». Il compenso spirituale è ancora più sostanzioso, assicura: « Avverto di aver infranto una barriera, di non poter più tornare indietro, di aver compiuto comunque un gesto. Ne smarrisco il significato, ma mi sento molto sublimato ». E come si è sentita la gente, di fronte alla sua esibizione? «Reazioni quasi spaurite: al nudo maschile non si è abituati. Stava aggruppata, un po' distante, ostile: passava fingendo, per vergogna, di non guardare, ostentava indifferenza. Risatine, quelle sì: le attribuisco a nervosismo da repressione ». Non è sicuramente, per i visitatori di « Contemporanea », la sola occasione di sconcerto, di stupore. Per la prima volta a Roma, ì misteri curiosi, faziosi e dolorosi dell'arte analitica, sintetica, processuale, dell'artegioco e dell'arte-gesto, del¬ l'arte che ha annullato se stessa vengono svelati a un pubblico più vasto e diverso da quello che frequenta gallerie fuori moda, cinema d'essai, teatri sperimentali, biennali di Venezia e di Parigi o mostre di Kassel: « Cinquecento, mille persone al giorno », garantisce ottimista Graziella Lonardi, ideatrice e organizzatrice della rassegna. « Vengono soprattutto al sabato, o durante lo passeggiate per Villa Borghese della domenica a piedi. Arrivano a gruppi, con i bambini: sedicimila spettatori, sino ad oggi ». Nell'atmosfera un po' catacombale del parcheggio sotterraneo, nella luce illividente del neon azzurro, tra le eleganti ingegnerie di rete metallica che suddividono lo spazio, nel silenzio ritmato dagli scatti delle diapositive, i passi rimbombano, i commenti echeggiano amplificati, le voci si levano sonanti: l'incontro tra il riduttivo buon senso romano e le distruttive bizzarrie della mostra non potrebbe essere più singolare. « Che schifo! », ha graffito con infantile franchezza un visitatore a commento di Laser piece di Robert Whitman (un alto cubo chiuso in una stanza, e sul cubo un pezzetto di specchio sottovetro, collegato a un filo elettrico malauguratamente fuori uso). « Prezzo speciale, lire duemila », è scrìtto sul biglietto lasciato da un visitatore polemico, inasprito dall'alto costo dell'insalata, sui cespi di lattuga ormai marcita esposti da Vosteli. Altre scritte suonano più ribalde: ma in genere gli spettatori sono meno intolleranti, e preoccupati soprattutto di non prendere inavvertitamente a calci le opere d'arte, sovente sparse sul pavimento e indistinguibili da un rifiuto o da un cencio. Smaliziati, i romani rimirano giochi paradossali e futili cui la pubblicità li ha da anni abituati: le « poesie visive » di Sarenco (una Madonna della Seggiola che annuncia nel fumetto « le famiglie delle vittime sono state avvertite ». Un infante goyesco che ammonisce nel fumetto «un fantasma s'aggira per l'Europa»^; oppure il ritratto di Carlo Marx con l'avvertenza «il nostro candidato non ha trovato posto in nessuna lista elettorale»; o ancora il quadro di Isgrò intitolato Jacqueline (indicata dalla freccia) si china sul marito morente, ma rappresentante soltanto un quadrato bianco a nere righe diagonali attraversato appunto da una freccia, mentre la coppia Kennedy non c'è. Sardonici, ammirano la semplicità di certe opere: per esempio Plng pong 1966 di Boetti, consistente in due affiancati quadrati rossi che s'illuminano alternatamente sulle parole « pine » a sinistra, « pong » a destra. Blandamente giocosi, provano a sedere su una delle dodici seggiole allineate da Kossuth davanti a tavolini muniti di dossier e sormontati da orologi elettrici. Blandamente curiosi, s'interrogano: un tavolino è privo di sedia, vorrà dire qualcosa o se ne sarà impadronito l'usciere? Un orologio, diversamente da altri che segnano in sequenza orari tra le 8,50 e le 10, fa le 5,20: ci sarà il suo significato o s'è fermato? Benevoli, apprezzano l'onestà di certi titoli: l'opera di Fabro Italia di pelo 1969 rappresenta effettivamente una sagoma della Penisola, realizzata in pelliccia di cavallino. Tediati, sfilano davanti agli innumerevoli foglietti vergati con fitta scrittura o magari con un'unica frase (per esempio: « Questa è una discussione »), che rappresentano l'arte concettuale. Delusi, i visitatori sono costretti a constatare i limiti dell'arte comportamentale: un « comportamento » o « evento » non si può ripetere tutti i giorni, di molte tra le più ghiotte esibizioni della mostra rimangono soltanto fotografie, spazi vuoti. L'uomo nudo s'è spogliato alla k vernice », e via. I due gemelli sistemati da De Dominicis uno di fronte all'altro, intenti a fissare un'asta posta tra di loro, si fanno vedere solamente al sabato e alla domenica: quando va bene. E' scomparso dopo tre giorni il travestito Urs Lutai, così bello nel suo maquillage Anni Trenta, così fascinoso nel suo turbante di velluto nero, così lunare nella sua composta performance: sedere a un tavolino da caffè bevendosi un Campari Soda. Il giovane artista-predicatore tanto bravo nell'arringare i presentì non si fa più vivo, peccato. Un seno d'oro Pigri, i visitatori ignorano i ripetuti inviti degli artisti a collaborare all'opera: sollecitati a infilzare spilli nei filoni di pane avvolti nelZTJnità e accatastati intorno a una grossa automobile nera, trascurano gli spilli e sbocconcellano piuttosto il pane. « La forma più attiva di partecipazione è il furto», ironizza la signora Franco, che sovrintende ai libri. « Rubano a man salva, e non soltanto volumi: la sera dell'inaugurazione hanno rubato tutti i ricevitori dei telefoni pubblici e persino il seno d'oro dell'uomo nudo ». Ma il pubblico giovanile e intellettuale affolla spettacoli teatrali e concerti sfl- dando anche diversi disagi fisici (sala gelida, pretesa del musicista La Monte Young che gli ascoltatori siedano per terra su tappeti e sema scarpe, esigenza del teatrante Eugenio Barba dì non avere più di sessanta spettatori); gli studenti sono fitti ed entusiasti alle proiezioni che offrono un'antologia abbastanza completa del cinema d'avanguardia degli Anni Sessanta. La pacatezza sorniona che ì romani oppongono invece alla rassegna dell'avanguardia artistica invecchiata e ripetitiva ha un sussulto soltanto di fronte alle opere più note, le scatole Campbell o le serigrafie di Warhol, le bianche sculture di Segai, i collages dì Rauschenberg: e si risveglia addirittura nel settore della fotografia, che è il vero successo della mostra. Vi si allineano le fotografie crudeli e sospese di Diane Arbus, specchio di quieta mostruosità umana; i paesaggi da sonnambulo di Gibson e quelli urbani di Friedlander; le immagini di gabinetti predilette da Duane Mìchals; gli esperimenti angosciati di Ugo Mulas. Come tutte le opere esposte a «Contemporanea», non sono in vendita; costerebbero del resto poco meno di un quadro: le fotografie stampate e firmate dalla Arbus sembrano introvabili negli Stati Uniti e le poche reperibili valgono 600.000 lire l'una; le sequenze fotografiche di Michals, numerate e firmate, costano 250.000 lire l'una; una fotografia di Weston, non numerata e quindi esistente in infinite copie, costa 150.000 lire; Friedlander è la disperazione dei mercanti americani perché rifiuta di numerare le sue immagini e vieta che siano vendute a più di 90 mila lire l'una. A Roma c'è sempre una piccola folla intenta a contemplarle. « Naturale ». commenta Daniela Palazzoli, che le ha scelte e ordinate. « Con la fotografia la gente ha un rapporto più diretto e familiare. Non avverte il distacco, l'incomprensione e la reverenza che caratterizzano il suo rapporto con l'opera d'arte: anche se molte correnti artistiche si orientano sempre più frequentemente verso la fotografia. Nella fotografia la gente, con immenso sollievo, crede di ritrovare la realtà. E sbaglia: pensare che la fotografia rifletta la realtà, che sia documento e prova di autenticità, è un pregiudizio del passato. Diventerà piuttosto, credo, l'unica forma di arte sopravvivente, il solo futuro dell'espressione figurativa». Può darsi, se il presente è rappresentato dalle opere che molti visitatori romani dì <i Contemporanea » sembrano considerare le più eloquenti: i cartelli su cui Kossuth ha riprodotto da dizionari le definizioni in diverse lingue della negatività, nuda, rien, nothing, nichts, insomma niente, il nulla; e un gran cartello su cui Vautier si è limitato a scrivere: « Per cambiare l'arte bisogna cambiare l'uomo ». Lietta Tornabuoni Mi Roma. Un'altra immagine del « parcheggio » (Foto Team)

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