A Torino tra rari esempi dell'arte rinascimentale di Marziano Bernardi

A Torino tra rari esempi dell'arte rinascimentale Qualche scoperta per i cittadini "appiedati,, A Torino tra rari esempi dell'arte rinascimentale Se la città non ha goduto dell'opera di un Brunelleschi, di un Bramante, di un Michelangelo, non le sono mancati architetti di talento sensibili allo spirito di quell'epoca I torinesi d'una volta (quelli colti, s'intende) quando un fiorentino o un romano gli diceva: voi del Rinascimento non ve ne siete nemmeno accorti; quasi sottintendendo che i piemontesi sono dei «nordici» meno italiani di tuifl gli italiani, rispondevano un po' stizziti: Ma come! lasciamo andare il duomo che ricorda Santa Maria Novella, lasciamo andare la chiesa dei Martiri che potrebbe stare benissimo a Roma, e il Mastio della Cittadella da paragonare, perché sorse soli trent'anni dopo, al Forte del Belvedere di Firenze. Venite qui, proprio in uno dei kardìnes minori di Augusta Taurinorum, al numero 4 dell'antica contrada degli Stampatori, e guardate la fronte e il cortile del palazzo Scaglia di Verrua. Questo, signori miei, è Rinascimento puro; e se noi non abbiamo avuto i vostri Brunelleschi e Leon Battista Alberti e Bramante e Michelangelo, non ci sono mancati architetti di talento sensibili allo spirito di quell'epoca prodigiosa. Purtroppo, contrariamente a una vecchia persuasione di storici autorevoli, il palazzetto Scaglia di Verrua — che al torinese delle «domeniche a piedi» in vena di piccole scoperte nella sua città consigliamo di ricontemplare, dato che già ne conosca le forme graziose, il che per molti bugìanen è dubbio — non è opera rinascimentale; e almeno 10 è, nel suo scheletro, fino a un certo punto. La sua storia familiare e strutturale è stata analizzata a fondo, fino all'ultimo documento e mattone, nella magnifica esplorazione, Forma urbana ed architettura nella Torino barocca, dell'intero tessuto urbanistico ed edilizio dalle premesse classiche alle conclusioni neoclassiche, condotta in migliaia di pagine di tre volumi (Torino, Utet, 1968), dal gruppo di studio dell'Istituto di architettura tecnica del Politecnico di Torino capeggiato da Augusto Cavallari Murat: mirabile guida, ahimè non ancora utilizzata, per 11 restauro conservativo metodologico del centro storico cittadino. E' dunque appurato che il Consigliere di Stato e Generale delle Finanze del duca Carlo Emanuele I, Antonio Solaro, già nel 1586 viveva nella casa di via Stampatori, da lui restaurata con interventi importanti. Vi morì nel 1604; e dopo un'intricata e penosa vicenda ereditaria, la fabbrica venne in proprietà di Filiberto Gerardo Scaglia, conte di Verrua. Fu pagata 4200 scudi d'oro e 3900 ducatoni a 16 fiorini l'uno. L'isolato, ottimamente situato in una zona non soggetta a modificazioni urbanistiche, era da tempo in via di riplasmazione; e — si legge nel citato testo illuminante — dai primi decenni del secolo XVII gli Scaglia di Verrua iniziarono un'opera di ce tinua fagocitazione dei minuti lotti medioevali limitrofi alla casa «manierista» (cioè stilisticamente già molto oltre l'età rinascimentale) di Antonio Solaro; finché intorno al 1650-51, a coronamento di una serie di acquisti nell'isolato delimitato dalla Magna Straia (contrada di Dora Grossa, via Garibaldi), il conte Carlo Vittorio Scaglia di Verrua faceva trasformare il palazzo nella configurazione che ancor oggi conserva, secondo un progetto dell'architetto biellese Gian Andrea Garabello; ed i lavori furono completati nel 1664. Addio Rinascimento, dunque, siamo al tempo e al gusto d'Amedeo di Castellamonte. Malgrado la delusione «storica» godiamoci perciò tranquillamente le eleganti simmetrie (d'un lontano eco rinascimentale), il luminoso piccolo cortile porticato, simile a un leggiadro «salotto di corte», del nobile palazzo Scaglia di Verrua. E se poi vogliamo esser ben sicuri della coincidenza dello stile con le date, corriamo in piazza San Giovanni e guardiamo il duomo che i torinesi chiamano, riecheggiando Dante, il loro «bel San Giovanni». Proprio un capolavoro non possiamo dichiararlo la dignitosa fabbrica eretta dall'architetto toscano Amedeo di Francesco (1430-1501), detto Meo del Caprino o Meo Fiorentino o Meo da Settignano. Di facciata nitida e pura nei suoi due ordini con evidenti derivazioni dal Brunelleschi e dall'Alberti, presenta un corpo mediano sproporzionato all'esigua cupoletta poligonale che giustamente il Toesca giudicò «timida». Ma è ugualmente un'affettuosa immagine che nella sua sobria misura ci fa pensare a certe oneste pitture del Migliara, del Gonin, del Bossoli. Invece il tempio sorse modesto, lungo 62 metri, largo 25 ed al transetto 36,50, alto all'occhio della cupola quasi 35. Demolite le tre vetuste basiliche ch'erano in loco contigue ed intercomunicanti, San Salvatore, San Giovanni Battista, Santa Maria de dompno (la prima era la più antica, forse della fine del IV secolo), la costruzione del nuovo duomo fu rapida: dal 1491 al 1497-98; e gli studiosi-concordano nel ritenere Meo del Caprino non solo il « maestro » appaltatore e direttore dei lavori, ma anche il progettista dell'opera, ed ascrivono le bellissime decorazioni marmoree delle tre porte a Sandro di Giovanni, uno degli scultori fiorentini che Meo s'era condotto a Torino. E' dunque questo il luogo dove in un contesto urbano ancora tardomedioevale brilla la luce del Rinascimento prima che Pellegrino Tibaldi ne porti a Torino i riflessi manieristici progettando la chiesa dei Santi Martiri (1577) di via Garibaldi, e prima che appunto il Manierismo, evoluzione rinascimentale, non sia, nella nuova capitale sabauda, avviato dal Vitozzi al barocco. Che sarebbe avvenuto — per l'architettura torinese — se il Tibaldi, coi buoni uffici di San Carlo Borromeo, avesse attuato il desiderio del duca di Savoia di costruire una grande chiesa, «con uno monasterio», in piazza Castello per ospitare la S. Sindone? Ha risposto Nino Carboneri: «L'architettura torinese e l'urbanistica stessa della città avrebbero assunto un volto pellegriniano, che invece non ebbero»; un volto, cioè, di gusto tardorinascimentale o manieristico. Ma un'altra domanda si può fare. Sono ben noti i rapporti del sommo architetto padovano, vicentino d'elezione, Andrea Palladio con Emanuele Filiberto. Al duca egli dedicò gli ultimi due dei suoi famosi Quattro libri dell'architettura ricordando d'esser stato da lui «chiamato in Piemonte», probabilmente dopo un incontro a Vicenza; ed a Torino si fermò nell'estate del 1566, di passaggio per la Francia, fece un disegno della Porta Palatina, conservato a Londra, annotò che le mura cittadine erano fatte «di cuocoli di fiume». A lungo perciò si favoleggiò di un progetto palladiano per il celebre «Parco» di Emanuele Filiberto, perfezionato dal figlio (il Carboneri dimostrò definitivamente l'infondatezza dell'ipotesi), e l'illustre storico Brincie- mann credette di poter scorgere un'idea del Palladio nel vestibolo centrale del Castello del Valentino, supposizione fallace. Tuttavia una sua lunga dimora, una sua fervida operosità a Torino, alla corte di Emanuele Filiberto, come s'è visto, non sarebbero state impossibili. Allora ben altro che fermenti palladiani riferibili a Filippo Juvarra, a Benedetto Alfieri e giù giù fino al Dellala di Beinasco e Filippo Castelli, si sarebbero potuti rintracciare nel panorama urbanistico-architettonico torinese. L'artista che come nessun altro influì per tre secoli sull'architettura europea, avrebbe dato certamente un nuovo irrevocabile corso anche a quella della capitale subalpina, imprimendole il segno possente d'una classicità che avrebbe arginato l'onda impetuosa del Barocco. Forse sarebbero bastati due o tre esempi, e Torino si sarebbe avvolta di un manto palladiano come Vicenza: e tra le vigne della collina si sarebbero viste delle piccole «Rotonde». Ciò non avvenne, e Vitozzi, Castellamonte, Guarini, Juvarra, Vittone e gli altri maestri del Barocco e del Rococò ebbero, fino al Neoclassicismo, mano libera, crearono l'autentico voIk di questa nostra cara città. Accontentiamoci dunque dell'unica nostra genuina orma rinascimentale: del «bel San Giovanni» che i torinesi amano anche se non è propriamente bellissimo. Marziano Bernardi