Alfieri tragico

Alfieri tragico Oggi è davvero illeggibile? Alfieri tragico Vittorio Alfieri: « Tragedie », a cura di Gianna Zuradelli, Ed. Utet, 2 voli, di complessive pag. 1959, lire 24 mila. Che le tragedie dell'Alfieri siano molto più celebrate che lette o rappresentate è comune osservazione, che non manca di suggerire, sotto sotto, un'effettiva illeggibilità e una reale impossibilità di rappresentazione di un teatro aspro, sgradevole, difficile, lontanissimo, nella sostanza, dal gusto d'oggi. Non è certo un discorso senza fondamento: la tragedia, come raffigurazione dello scontro dell'uomo contro la necessità o della testimonianza che l'eroe offre della propria irriducibile opposizione al marcio che regna in Danimarca e in molti altri Paesi ancora, è un genere letterario che sembra appartenere al passato. Il realismo borghese del romanzo e del teatro dell'Ottocento l'ha resa un oggetto da museo. E le tragedie alfieriane sembrerebbero essere, a prima vista, oggetti ancor più da museo che tante altre contemporanee o di poco posteriori (come quelle di Shiller o dello stesso Manzoni). A rileggerle ora, nell'edizione testualmente accuratissima che Gianna Zuradelli ha preparato per i classici italiani dell'Utet, diretti da Mario Fubini, l'impressione è, invece, che proprio nelle tragedie alfieriane si attui una delle trasformazioni fondamentali del teatro moderno. Nell'ampia e molto intelligente introduzione, la Zu radelli compie una rinnovata analisi delle idee alfieriane sulla tragedia e passa, quindi, in rassegna a una a una le di ciannove tragedie indicandone con grande finezza i caratteri e i modi poetici; e, naturalmente, ridiscute anche l'importanza del personaggio del « tiranno » nella complessiva strategia tragica dell'Alfieri. E' forse il caso di insistere ancora su questo motivo, per notare come effettivamente l'Alfieri ponga alla base del suo discorso tragico il momento in cui entra in crisi il rapporto fra il sovrano e il potere che egli detiene. Si pensi a quello che è considerato come uno dei testi supremi del teatro alfìeriano, ii Saul. II protagonista non crede più nell'irrevocabilità e nel valore assoluto dell'esercizio del potere: per questo finisce con il portarlo ai limiti del delirio e della gratuità, cercando cosi di superare il sen so di impossibilità che egli avverte di fronte a una condizione di re di cui ormai non comprende o non riconosce più le giustificazioni tradizionali. L'unico modo in cui potrà ridare significato e valore alla propria regalità sarà la morte: «Empia Filiste, / me troverai, ma almen da re, qui... morto ». Sono le parole con cui si chiù de la tragedia: il potere non è più credibile, non è più Iegitti inamente praticabile, e ad avvertirlo è proprio il re, il tiranno. Ciò che rappresenta l'Alfieri è questa mortale malattia nella coscienza del detentore del potere: e Saul è il personaggio esemplare, che assomma in sé l'intero itinerario del sovrano che non crede più nella propria condizione e nel proprio compito di dominare, ma è percorso da dubbi, da incertezze da angosce misteriose. La morte rappresenta per Saul l'unico modo con cui può liberarsi dalla contraddizione: è la morte tragica, che testimonia l'estrema fedeltà del protagonista a quell'idea di regalità in cui ha smesso sia di credere sia di servire, trasformandosi in tiranno; ma porta con sé anche il senso della conclusione defin: tiva di una concezione del potere come assoluto e divino, del sorgere di un rapporto inquieto, problematico, dubbioso, pieno di crisi di coscienza, fra il potere e chi lo detiene. Ma la rappresentazione alfieriana si svolge in un modo del tutto nuovo rispetto alla tra dizione tragica: è l'analisi, appunto, di una malattia della coscienza, che non si esplica tan to in azioni quanto in fatti interiori, in avvenimenti e mutamenti psicologici. E' una situa zione che si ripropone per tanti altri testi, come (esemplarmente) la Mirra, ma anche il Filippo o l'Antigone o la Vii ginia o altre tragedie ancora In realtà, gli eventi sono sempre molto meno significativi dei moventi psicologici: la tragedia si svolge come vicenda d'anima e di coscienza, sia che si tratti del tiranno che avverte in crisi la propria posizione nei confronti del potere (come, ad esempio, Filippo, nella misura in cui motivazioni private vengono a interferire con le ragioni che regolano l'esercizio del potere, o Appio nella misura in cui il possesso di Virginia esorbita verso il capriccio e la gratuità in una psicologia cnncut di tiranno che ha bisogno, per credere in sé, di compiere azioni enormi, nefande, immotivate), sia che si tratti della donna innamorata di un amore incestuoso, cioè in contrasto con una passione divenuta tirannica gratuita e al di fuori di ogni termine di natura e di umanità, come è Mirra. Con l'Alfieri, insomma, nasce il dramma moderno, che è essenzialmente psicologico, e si attua come rappresentazione di coscienze divise, che si divorano nelle contraddizioni e nei dubbi, fino a distruggersi. La tragedia muore nel momento in cui la vicenda finisce con l'obbedire a canoni realistici e di verisimiglianza, ma anche quando essa si compie all'interno dei personaggi, e il contrasto fra l'eroe e la necessità o il mondo si cala nella coscienza, e si trasforma in lotta di sentimenti e di stati psicologici. L'esperienza dell'Alfieri appare, quindi, davvero centrale nella vicenda del genere tragico, ed esemplare per l'intero teatro moderno, che, appunto, ha come struttura caratteristica il dramma psicologico. Nel momento in cui il rapporto fra sovrano e potere entra in una crisi definitiva che l'Alfieri coglie perfettamente, entra anche in crisi il personaggio tragico, che è sempre colui che esercita il potere o che vi è destinato. Dopo l'Alfieri, il dramma psicologico perderà le vesti regali, gli abiti di cerimonia: e sarà totalmente borghese. La liquidazione della tragedia si è ormai compiuta. G. Bàrberi Squarotti

Luoghi citati: Danimarca