Condanna e morte di Ciano di Giuseppe Mayda

Condanna e morte di Ciano TRENTANNI FA UNA TRAGICA VENDETTA DEL FASCISMO Condanna e morte di Ciano Con il genero del duce, alle 9,20 dell'I 1 gennaio, furono fucilati per alto tradimento quattro gerarchi: Marinelli, Gottardi, Pareschi e De Bono Ciano non morì subito: il capitano medico ordinò il colpo di grazia - Si udirono due spari. Poi — ricorderà don Chiot nelle memorie — "la voce d'uno stolto: 'Giustizia è fatta' " - Tre ore dopo, a Gargnano, Mussolini aprì il Consiglio dei ministri dicendo anch'egli: "Giustizia è fatta" Per gualche ora, la mattina di lunedì 10 gennaio 1944, Verona apparve come una città in stato d'assedio: carri armati erano in movimento davanti all'Arena, cordoni di fascisti presidiavano gli imbocchi del Ponte Scaligero e del Ponte della Pietra, pattuglie percorrevano le strade lungo l'Adige. Queste eccezionali misure di sicurezza erano state prese da Pavolini in vista della conclusione del processo contro Ciano: il Tribunale Speciale Straordinario era riunito in camera di consiglio e si attendeva la sentenza da un momento all'altro. La paura dilagava. I corridoi di Castelvecchìo erano pieni di uomini armati e correva voce che gli imputati sarebbero stati uccìsi lì, sui loro banchi. Terrorizzata, una dattilografa della Procura avvertì gli avvocati Perani e Bonsembiante: « Quando il presidente leggerà la sentenza tengano giù la testa perché, se dovessero assolverli, da dietro, là in fondo alla sala, quelli sparano... ». In camera di consiglio gli otto giudici e il presidente discutevano attorno ad un tavolo coperto di panno nero, con al centro tre portacenere e una rozza scatoletta piena di palline bianche e nere per le votazioni: pallina bianca, la vita; pallina nera, la morte. Montagna, amico di De Bono, Mittica, Riva e Casalinovo erano orientati per una certa indulgenza: Vecchini, Vezzalini, Gaddi e Pagliani pretendevano la massima severità; Riggio era incerto. Montagna propose di dividere gli imputati fra quelli che avevano tradito veramente e quelli che, senza rendersi conto del significato politico dell'ordine del giorno Grandi, lo avevano votato. Vezzalini protestò: «Per me — disse — c'è una sola distinzione da fare: fucilare i primi alla schiena e gli altri al petto ». Fu subito esaminato il caso di Cianetti e l'ex sottosegretario alle Corporazioni ottenne cinque palline bianche e quattro nere: era salvo. Ma quando anche De Bono ebbe cinque palline bianche, Vezzalini tornò ad insorgere urlando minaccioso: « Colleghi, voi state tradendo il fascismo! Sui banchi degli imputati dovreste finire anche voi! Propongo una nuova votazione per De Bono ». Intimorito, Riggio mutò opinione e depose nell'urna la pallina nera perché, disse poi a Montagna, « come fascista e squadrista ho il dovere di condannare a morte ». Così fu anche per gli altri; su Ciano, invece, la votazione fu unanime: fucilazione. Alle 13,40 un lungo trillo di campanello annunciò il Tribunale. Gli imputati uscirono dalla saletta d'attesa e, dopo un attimo di silenzio, il presidente lesse in fretta e a voce bassissima il dispositivo della sentenza. Alle prime battute di Vecchini, che recitava l'elenco degli articoli applicati, i difensori si irrigidirono comprendendo all'istante che era la responsabilità piena, senza discriminanti o attenuanti di sorta: la morte per tutti, presenti e contumaci, con la sola eccezione di Cianetti, condannato a trent'anni di reclusione. Gli accusati, pallidissimi, non fiatavano. De Bono, che non aveva capito, si volse ansioso a Ciano: « Che cosa hanno deciso? ». L'ex ministro degli Esteri indicò Cianetti: « Solo lui si salva, per noi è finita » e si fece il segno della croce. Marinelli, a voce alta, chiese: «E per me?». « La morte, come per noi », rispose Ciano. Marinelli svenne. "E' un miracolo" Il Tribunale si ritirò, gli imputati vennero spinti di nuovo nella saletta. Marinelli fu adagiato su un divano mentre Pareschi e Gottardi, inebetiti, piangevano. Entrò correndo l'avvocato Marrosu e Ciano, eccitatissimo nella confusione generale, lo affrontò: « Ma che cosa accade, avvocato? Ci vogliono ammazzare subito, qui in aula? ». Cianetti, che abbracciando il difensore ripeteva « E' un miracolo, è un miracolo », venne portato via e sparì dalla storia (liberato dagli americani nell'aprile 1945, se ne andrà in Mozambico con la famiglia e per parecchio tempo, in Italia, sarà creduto morto). Le domande di grazia furono firmale verso le 18, agli Scalzi. Ciano, in un primo tempo, tergiversò (« Dovrei dare questa soddisfazione a Mussolini? Mai; piuttosto preferisco morire mille volte »), poi finì per farlo anche per non danneggiare gli altri. Tuttavia quelle cinque suppliche non giunsero mai a Mussolini per il semplice fatto che, già prima della sentenza, era stato deciso di respingerle ed ora era pronto un foglio, scritto a mac- china e protocollato, in cui si diceva che, letto il verdetto, vagliati i motivi dei ricorsi estremi, non si riteneva di poterli inoltrare al duce stabilendo che l'esecuzione avesse luogo alle 8 del mattino dell'11 gennaio. Nelle venti ore fra la sentenza e la fucilazione le domande di grazia di Ciano e dei suoi compagni di sventura passarono attraverso parecchie mani. Secondo i giuristi l'inoltro delle suppliche doveva essere fatto dall'autorità militare più elevata della regione veneta ma il generale Piatti Dal Pozzo, chiamato da Padova, dichiarò con fermezza la propria incompetenza. Anche il ministro della Giustizia, Pisenti, raggiunto alle 23 da Pavolini, Fortunato e Cersosimo ch'erano assieme al capo della polizia. Tamburini, oppose un diniego. Il Tribunale Straordinario — disse — era una iniziativa del partito, non del suo ministero; se avesse ricevuto le suppliche le avrebbe mandate a Mussolini: « Ricordatevi — concluse — ohe mai, in Italia, si è eseguita una condanna a morte contro un uomo dell'età di De Bono ». Pavolini e gli altri, allora, corsero a Brescia, nella notte, per chiedere consiglio al ministro dell'Interno, Buffarmi Guidi, il quale naturalmente aveva la risposta pronta: se la questione riguardava il partito — come sosteneva Pisenti — e se l'inoltro delle domande spettava alla più alta autorità militare locale, allora il solo competente era l'ispettore della V Zona della g.n.r., console Italo Vianini. Convocato in prefettura a Verona alle 3 del mattino, anche Vianini rifiutò e inutilmente Cosmin ricorse al ricatto: « In mancanza di una decisione, io personalmente, all'alba, darò gli ordini per l'esecuzione della sentenza ». Vianini fu irremovibile; « Senza un ordine specifico e particolare» dei suoi superiori — spiegò al furente Pavolini — non poteva aderire. La discussione proseguì per quattro ore. Alle 7, in un estremo tentativo di convincerlo. Tamburini telefonò a Renato Ricci, comandante generale della g.n.r., mettendolo al corrente della situazione. Poi passò il microfono a Vianini. Ricci: « Devi aderire alle richieste di Tamburini ». Vianini: « Ma non sarà mica un ordine... ». .Ricci: « Si. E' un ordine». Tuttavia l'ispettore non si arrese subito; volle ed ottenne — dopo un'altra telefonata a Ricci, alle 8,15 — uno scritto in cui Tamburini, Cosmin, Pavolini e il questore Caruso attestavano che egli aveva avuto effettivamente l'ordine di prendere in esame le suppliche dei condannati e di respingerle. Non risulta che Mussolini si sia preoccupato delle domande di grazia o abbia almeno chiesto se erano state presentate. La morte di Ciano, in effetti, costituiva per lui una necessità, lo strumento adatto a bloccare in modo definitivo la revisione storica del 25 luglio che, se fosse proseguita, avrebbe potuto coinvolgerlo personalmente. Nella notte — mentre in Germania il capo della Gestapo, Kaltenbrunner, informava Hitler che « le sentenze di morte saranno eseguite mediante fucilazione alle 9 circa di domattina» — Mussolini ricevette dalla figlia una lettera che era stata spedita il 9 gennaio. Edda, ospite di una casa di cura a Parma, gli diceva crudamente che, se entro tre giorni il marito non fosse stato liberato, avrebbe fatto pubblicare i « Diari » negli Stati Uniti e concludeva: « ... Ho aspettato fino all'ultimo sperando che tu avessi un po' d'onestà e un po' d'umanità, ma siccome vedo che tu non fai niente saprò anch'io colpire ». Forse Mussolini rifletté su questa missiva perché alle 5 del mattino svegliò, con una telefonata, il generale Wolff, capo delle SS in Italia, per chiedergli ingenuamente se « una mancata esecuzione della condanna potrebbe nuocermi nella considerazione del Fuhrer»: «Sì, e molto», rispose l'altro, insonnolito. L'ultima notte I condannati trascorsero la loro Mima notte in un alternarsi di speranze e di sconforti. Si confessarono tutti da monsignor Giuseppe Chiot, cappellano degli Scalzi, riunendosi poi a parlare, col sacerdote, in un camerone comune. Ciano era il più avvilito. Non aveva mai potuto incontrare, dal 19 ottobre, la moglie e i figli e sapeva che ormai, malgrado i coraggiosi sforzi di Edda, nulla lo avrebbe salvato. Disperato, pensò al suicidio e verso le 2, col pretesto di voler dormire, si ritirò nella propria cella e ingoiò una pillola che da qualche giorno custodiva nel fondo di un taschino del panciotto. Credeva che fosse veleno, se lo era fatto dare da Frau Beetz, profondamente affezionata a lui, ma la donna, dopo averne par¬ lato con don Chiot, gli aveva consegnato un innocuo sonnifero. Quando Ciano si riprese dal torpore in cui l'aveva gettato il farmaco, l'orologio a pendolo del carcere batté sei colpi. « E' già l'ora? » chiese De Bono. Ma il tempo trascorse senza novità; suonarono le 7, poi le 8, infine le 8,30. Il direttore degli Scalzi, dottor Olas, salì alle celle e parlò con Gottardi e Pareschi, abbattutissimi: « Le esecuzioni avvengono all'alba, di solito, ma ormai è giorno — disse — Si può sperare... ». Tutti pensavano alle domande di grazia. « Se tra un quarto d'ora non ci avranno portati via andremo a dormire — deci.<••> De Bono —. Alle 9 non si fucila più nessuno ». E Ciano sorrise: « Pensare che volevo uccidermi... ». Grazia respinta Alle 9 in punto il campanello alla porta del carcere squillò ripetutamente. I condannati ebbero un sussulto. Entrarono due ufficiali tedeschi, subito seguiti da un trafelato funzionario del tribunale che passò di cella in cella per annunciare a Ciano e ai suoi compagni che « le domande di grazia sono state respinte ». In una confusione indescrivibile di ordini e contrordini, i prigionieri vennero portati fuori e fatti satire su un torpedone giallo carico di militi armati che a tutta velocità si diresse al poligono di tiro del forte San Procolo, fuori Porta Catena, dov'era già schierato il plotone di esecuzione, trenta fascisti vecchi e giovani comandati dallo squadrista Nino Furlotti. Ciano fu il primo a scendere, sveltamente, dal camion; era agitato e uscì in una imprecazione contro Mussolini: « Vigliacco — esclamò —. Farà una fine peggiore della mia... ». Ma si riprese e, ringraziando don Chiot, disse: «Muoio senza rancore per nessuno. Dica ai miei figli che bisogna amare ». Marinelli era semisvenuto; fu necessario sorreggerlo sino al fossato. Tutti i condannati rifiutarono la benda sugli occhi. I militi li spinsero avanti facendoli sedere a cavalcioni di cinque sedie, con le mani legate alla meglio alle spalliere,. rivolgendo così la schiena al plotone d'esecuzione ch'era distante una dozzina di metri. Cosmin ordinò di leggere la sentenza e a questo punto Gottardi ; ' alzò, sciolse le mani dal legaccio e, voltandosi col braccio destro alzato, gridò: «Viva il duce, viva l'Italia ». Pareschi lo imitò, salutando e gridando « Viva l'Italia ». Anche De Bono gridò « Viva l'Italia » ma rimanendo seduto. Marinelli, la testa piegata sulle braccia, tacque. Ciano si voltò più volte a guardare indietro e, un istante dopo, ad un gesto di Furlotti, partì la scarica. Erano le 9,20 dell'11 gennaio. I cinque giustiziati caddero a terra: Marinelli in avanti. Ciano e Gottardi all'indietro, Pareschi e De Bono si rovesciarono su un fianco. Solo per quattro la morte era stata istantanea: Ciano rantolava e il capitano medico Carretto chiamò Furlotti per il colpo di grazia. Si udirono due rivoltellate. Poi — ricorderà don Chiot nelle memorie — « un silenzio vuoto come quello del nulla, e d'improvviso la voce di uno stolto: " Giustizia è fatta"». Tre ore dopo, a Gargnano, Mussolini aprì il Consiglio dei ministri dicendo: «Giustizia è fatta ». Giuseppe Mayda