Siqueiros in Italia di Marziano Bernardi

Siqueiros in Italia Il pittore scomparso Siqueiros in Italia L'incontro con l'artista e la nuova arte messicana alla Biennale di Venezia del 1950 L'incontro dell'Italia con David Alfaro Siqueiros, morto domenica a 77 anni nella sua villa di Cuernavaca, nel Messico, avvenne alla Biennale di Venezia del 1950, dove il direttore del Museo Nazionale di Città del Messico, Fernando Gamboa, commissario della sezione messicana, espose 14 sue opere, tutti quadri da cavalletto, essendo naturalmente impossibile rappresentarlo con le sue espressioni figurali più tipiche, gli immensi «murali» da lui eseguiti in vari luoghi della sua patria e in California, nel Cile, a Buenos Aires, all'Avana. Prima, durante la dittatura fascista, la presenza alle esposizioni veneziane del compagno d'armi di Villa e Zapata nella lotta contro Victoriano Huerta, del militante comunista implicato nel tentato assassinio di Trotsky, del combattente nell'esercito repubblicano della guerra civile di Spagna, sarebbe stata inconcepibile. Nelle Biennali anteriori al '50 il Messico era rappresentato dall'innocuo Angel Zarraga, più o meno cubista. Con Siqueiros fornivano uno spettacolo impressionante e memorabile gli altri «Tre Grandi» della nuova pittura messicana: il decano, José Clemente Orozco, sparito l'anno precedente, il grande Diego Rivera che, d'un decennio più anziano, aveva suggerito a Siqueiros, nell'incontro a Parigi, l'idea di una pittura monumentale ed «eroica» rievocante la tradizione dell'arte indigena, precolombiana, e infine colui che era forse il più intimamente «artista» per la concentrazione delle sue ricerche sui puri valori plastici: Rufino Tamayo, allora cinquantenne. L'insieme d'una sessantina di dipinti che dimostravano — come scriveva il Gamboa — il rinascere di un'arte pubblica di vasto respiro, caldamente umana e poetica nelle sue travolgenti immagini, fu un colpo di fulmine per gli intenditori italiani. I quali tuttavia s'entusiasmarono particolarmente per Tamayo, forse perché più vicino a certi modelli europei, prima di tutti Picasso. E subito circolò per la Biennale l'allegro motto di Mino Maccarl: «Viva Tamayo I Che con Picasso fa il paio!». Confidenzialmente poi egli ci diceva: «Per dieci anni eccoci serviti: nasceranno a dozzine i piccoli Tamayo». Nessuno, però, come Siqueiros, identificava nella rivoluzione artistica messicana lo spirito e l'azione della rivoluzione politica e sociale del proprio Paese. E' impossibile infatti scindere in lui l'uomo dall'artista, e pochi come lui ebbero, esercitando una professione che può anche straniarsi completamente dalla vita, il senso dell'impegno umano con carattere di «missione». Anche negli artisti ritenuti più «impegnati», in un Goya, in un Picasso, giunge sempre un momento del distacco da ogni passione che non sia quella esclusiva dell'arte, unica regnante. In Siqueiros, mai. Pure quando il tema non lo dichiari, si sente nella sua pittura scorrere il sangue delle vene turgide del ribelle, del partigiano, dell'ideologo pronto a dare la vita per il trionfo della sua idea (e si sa che la sua idea fu quella comunista), del perseguitato dai governi «dell'ordine», ora in esilio, ora in carcere fino ai tardi anni. L'ultima volta, se non erriamo, fu nel 1960, quando Neruda gli dedicò degli splendidi versi: «...non dimenticare, Siqueiros, che ti aspetto / nella mia patria di vulcani e di nevi I ...La tua pittura è la patria tanto amata, / il Messico è prigioniero insieme a te». E nella prigione, in verità non troppo dura perché un immenso rispetto saliva a lui anche dagli avversari, egli continuava a dipingere, a stendere i bozzetti per le sue colossali composizioni, più vaste della Sistina di Michelangelo. Privato della libertà, sentiva giungergli il messaggio di solidarietà della cultura democratica di tutto il mondo. Questo straordinario, febbrile vitalismo ha giovato od in un certo senso nuociuto all'espressione artistica — puramente artistica — del maestro messicano? La domanda può sembrare oziosa perché appunto senza una simile prorompente energia fisica e morale, noi non avremmo l'arte di Siqueiros ch'è soprattutto di propaganda ideologica. Il fatto è, comunque, che il cosi detto «furore dell'America latina» impersonato dall'attivismo sociopolitico del pittore, spinse talvolta il suo lavoro a un gigantismo persino retorico. Nel suo viaggio in Italia dopo il 1920 egli era stato affascinato dagli affreschi di Giotto, Masaccio, Michelangelo; aveva capito che la sua vocazione era di narrare, come quei grandi avevano narrato al popolo. Se non che la voce era diversa, la sua non conosceva la misura che di quei sommi (anche del Buonarroti più manieristico) era stata la inderogabile regola stilistica. La missione civile che gli fa¬ czdd ceva simboleggiare la Rivoluzione Messicana o la Marcia dell'Umanità prevaleva in lui sull'ordine pittorico. E l'ansia di innestare sul linguaggio formale indigeno un linguaggio innovatore proprio delle esperienze più moderne, dal futurismo al cubismo, lo induceva ad adottare tecniche e materiali pittorici che contrastavano col senso della tradizione. Non v'è dubbio che il suo realismo populista aprì vie nuove a quell'arte di «partecipazione» che tuttora contraddistingue gli artisti «impegnati». Ma l'epos che avvertiamo nella tragica simbologia di Guernìca non sempre vibra nelle smisurate rappresentazioni di Siqueiros. Passionalità e violenza, generosità verso gli umili e i sofferenti, speranza indomita in una più giusta condizione umana, inestinguibile sete di libertà, sempre presenti nella sua pittura, riscattarono in lui i cedimenti artistici che si avvertono nel suo titanismo figurativo, condotto forse più su! metro della quantità che della qualità. Ma il suo congedo dai vivi, in un mondo per tre quarti schiavo di regimi dittatoriali, più che come lo spegnersi di una luce, va interpretato come un incitamento a raccogliere la sua eredità morale. Marziano Bernardi