Sulla statua di De Gaulle di Luigi Salvatorelli

Sulla statua di De Gaulle GLI EREDI DEL GENERALE Sulla statua di De Gaulle Nell'elegante libretto collettivo Francia: rapporto a quattro mani (Bocchi-Romani-Marin-Ronfani; Pan ed., Milano) attirerà per la sua attualità particolarmente l'ultimo saggio di Ugo Ronfani, Le alchimie di Pompidou, ben più ricco e vivo di quello che il titolo lascerebbe supporre. Abbiamo qui un quadro analitico della Francia d'oggi quale De Gaulle l'ha lasciata (non ci sono modificazioni sensibili da segnalare): quadro in cui, per verità, alla analisi minuta e suggestiva non si accompagna sufficientemente una sintesi organica e precisa, con le opportune conclusioni. Il Ronfani incomincia affermando — attraverso la classica evocazione della « statua del Commendatore » — che la Croce di Lorena eretta a Colombey - les-Deux - Eglises (43 metri di altezza) <v continua a proiettare la sua ombra gigantesca » a Strasburgo, Bordeaux, Le Havre, Marsiglia: ed egli parla di ombra del padre. Ma non c'è stato nulla di paterno nel comportamento del generale verso i suoi concittadini: non ci si intese l'affetto paterno, che porta con sé la comprensione, la tolleranza: è stato riferito che egli dicesse «les Francais sont des veaux», espressione né paterna, né amichevole. Dice il Bocchi: « Tutta la storia della Francia moderna è stata condizionala dall'alt alena fra il radicalismo riformista e il conservatorismo nazionalista »: e noi possiamo postillare che De Gaulle non si è legato né all'uno né all'altro, ma ha proceduto volta per volta secondo il suo criterio personale della cui infallibilità egli non aveva il minimo dubbio. * * In tutte le elezioni legislative svoltesi dopo il suo ritorno al potere dal '58 in poi, il partito gollista non ha mai ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, neppure nella consultazione avvenuta immediatamente dopo la grande paura del maggio '68 (ottenne allora il 43,65%). Bensì gli giovò l'aver rispolverato — dice sempre il Bocchi — lo scrutinio uninominale maggioritario a due turni. E va ricordato — sempre secondo il Bocchi — che nel 1965 al primo turno delle elezioni presidenziali col suffragio universale, De Gaulle era stato messo in ballottaggio « come un candidato qualsiasi ». Egli non si è mai identificato con la sua nazione, non l'ha mai abbracciata in un amplesso paterno: piuttosto l'ha tenuta innanzi a sé, o anzi al di sotto di sé, parlandole in tono di pedagogo non privo di arroganza. Fondatore? Ma di che? E non ha detto egli stesso che non avrebbe chi lo imitasse, lo continuasse? Solo, al disopra di tutti, in disparte da tutti: è questa l'immagine che ci si presenta di lui nei rapporti coi suoi concittadini. Volta per volta, egli ha detto che cosa conveniva fare, per la sistemazione governativa, per la soluzione del problema algerino; ma non col tono di chi chiama a consiglio, di chi persuade a una soluzione. La sua forma abituale di decisione è stata quella del referendum, e della presentazione della soluzione proposta come quella di una volontà immutabile: se la soluzione da lui proposta era accettata, bene, altrimenti non c'era che da attendere il rinsavimento dei cittadini, senza sollecitazioni, tanto meno suppliche (e nel caso estremo l'Infallibile se ne andrà). Si sarebbe fatto un nuovo referendum, modificando i termini, senza discussioni in comune nel parlamento o nel governo. Il governo, del resto, era lui; gli altri non erano che esecutori. Se la sua decisione era accettata, tanto meglio; se rifiutata, attendeva, con qualche modificazione, che francesi o algerini ci ripensassero sopra; e quando teneva particolarmente a certe soluzioni, e queste non erano accettate, abbandonava la partita, e se ne andava sbattendo la porta: come avvenne per il « no » dei cittadini alla riforma del Senato, all'introduzione del regionalismo. Tanto peggio per i miei concittadini, diceva. E possiamo ancora — sempre sulla scorta del Bocchi — ricordare che dopo aver proclamato « dopo di me ci sarà i! caos» aveva fatto negli ultimi tempi una curiosa correzione: « Dopo di me qui ci sarà Lourdes ». E innumerevoli ex-voto sono sorti a Colombey. E' semplicemente fantastico quello che è ripetutamente accennato nel nostro libretto: che i Francesi, dopo aver detto no a quelle sue proposte, abbiano avuto una sensazione analoga a quella provata dopo la condanna di Luigi XVI. Un altro regicidio, insomma. De Gaulle non è stato mai un tragico. Dopo l'esito negativo di quel « referendum » egli disse: i francesi non vogliono saperne delle cose grandi che io loro offro; vogliono continuare nel solito tran tran. Bene: per il tran tran essi non hanno bisogno di me. E se ne andò immediatamente, senza neppur procedere — come sarebbe stato (io penso) suo obbligo — all'insediamento del successore provvisorio, il suo vecchio nemico Alain Poher, presidente del Senato. Infallibilità e disprezzo: ecco i due sentimenti fondamentali di De Gaulle. E' però un fatto che egli ha lasciato dietro di sé un'aura di grandezza, tanto maggiore quanto — possiamo dire — più vaga e indeterminata. Azzarderò (e non credo sia un vero azzardo) l'ipotesi che ancora oggi chi domandasse discretamente al primo Francese incontrato una definizione di De Gaulle, ne riceverebbe per risposta non più di questo: è stato un uomo straordinario. E se il Francese interrogato a bruciapelo fosse uno spirito critico, ripeterebbe la battuta del Canard enchainé, con cui si inizia la prima « sonata a quattro mani »: « Avevamo un maresciallo (Pétain, evidentemente). Poi abbiamo avuto un generale. Ora ci siamo ridotti ad accontentarci di un colonnello » (Messmer, attuale presidente del Consiglio, che — salvo errore — non conta nulla, puro esecutore di quel che Pompidou gli dice). Dalla battuta del Canard enchainé possiamo" ricavare che « la statua del Commendatore » non è poi così primeggiarne, così gigantesca come si potrebbe credere dal successo di codesta immagine (che ritorna più di una volta in questo Rapporto a quattro mani). E codesta impressione è rafforzata da un'altra citazione — che prendiamo ancora dal primo saggio — di Jean Francois Revel: «La Francia ha sempre in riseva uno o più salvatori provvidenziali, pronti a balzare al potere in caso di crisi e a tal fine » — qui la critica diventa esageratamente maligna e fuori linea — « preparando o provocando loro stessi la crisi ». (Se il satirico scrittore ha pensato a De Gaulle, non fu lui a venir via per propria iniziativa?). In questa « sonata a quattro » Pétain e perfino Lavai compaiono ripetutamente. Ma in verità c'entrano poco. Tanto gli individui quanto le situazioni sono differentissime. De Gaulle si offerse veramente lui come salvatore, di fronte alla situazione creatasi fra Parigi e Algeri. Diciamo meglio: non si offerse direttamente, ma seppe farsi suggerire, dallo stesso presidente della repubblica in carica, di offrirgli il posto, dopo un lavorio silenzioso di più anni per richiamare su di sé l'attenzione del mondo governativo francese, come unico tentativo possibile per uscire dall'imbroglio. Egli seppe suscitare (non d'un tratto: all'inizio lasciò i suoi concittadini piuttosto indifferenti o anche contrariati: dopo tutto, non si stava male con il paterno Pétain) una larga e intensa opinione che occorresse una certa rivoluzione, e che non c'era altri che lui per farla. Insomma, seppe fare di sé — senza dirlo — il salvatore indispensabile e unico. Nulla di simile al comportamento di Pétain: anche lui chiamato come unico salvatore, ma per vie ben diverse, e con ben altra partecipazione propria. E il nodo della differenza va cercato nella sconfitta militare, e nell'immenso, stanchissimo desiderio di pace — a tutti i costi — sorto nel popolo francese: fenomeni che oggi mancano completamente. ★ ★ Unica novità che sembra consolidare il regime presidenziale. Ma neanche questo si può affermare con sicurezza. De Gaulle, protagonista in questa faccenda, ha introdotto l'elezione diretta del presidente da parte del popolo; ma questo non basta perché ci sia un regime presidenziale. Il rapporto di potere tra parlamento e governo per sé non è modificato; semplicemente, la permanenza dello stesso presidente porta con sé una stabilità maggiore. Non la porta con sé formalmente, ma la porta di fatto: il presidente attinge dalla sua stabilità una possibilità di insistenza in certe sue di¬ rettive. E c'è sempre la via aperta alla richiesta da parte di lui di poteri straordinari. Ma durerà l'innovazione gollista per l'elezione presidenziale? Anche se duri, occorre osservare che nel fatto essa può produrre effetti assai differenti, secondo la persona che ne usufruisce. Tutto è incerto — verrebbe la voglia di concludere — nello stato attuale della repubblica francese. Sarebbe anche errato credere con troppa facilità a cambiamenti nel funzionamento dei poteri costituzionali. Un brillante corsivista, il Frossard del Figaro, citato nel nostro libretto, ha messo in canzone il fatto che « da tempo non si fa che parlare della fine del gollismo »: «De Gaulle era ancora vivo, e già si annunciava, due o tre volte all'anno, la fine del suo regno, il fallimento delle sue idee, il tramonto delle sue speranze, c la rovina della sua politica ». Al che si aggiunge la difficoltà di definire, propriamente, che cosa sia il gollismo. ★ * Olivier Guichard, che è stato uno dei ministri del generale, ha detto: « Non c'è che un vero criterio per definire il gollismo, lo stesso De Gaulle, il quale ha fatto tutto e il contrario di tutto... se De Gaulle ha apportato qualcosa di profondamente positivo al nostro paese e al nostro secolo, è stato appunto questo: ha dimostiato come un grande movimento politico potesse nascere, svilupparsi, governare e durare senza nulla dovere a una ideologia... La frase più celebre di De Gaulle è anche la più ambigua: egli — ha detto — aveva una certa idea della Francia, ma non ha mai precisato quale ». Si sarebbe tentati di dire che non ne aveva nessuna. E dopo tutto, forse che non è possibile governare giorno per giorno, secondo l'ispirazione del momento? A questo proposito è il caso di ricordare una dichiarazione di Pompidou: « Il gollismo non è una dottrina, ma un atteggiamento »: è una dichiarazione recente, fatta in un Consiglio dei ministri dell'aprile '73. E nel maggio seguente ha detto: « Io sono qui per impedire il regime dei partiti e lo impedirò ». Abbiamo qui una direttiva precisa, e al tempo stesso un programma mancante. Impedire il regime dei partiti non ha un senso se non si ha il coraggio di aggiungere: e governerò come pare a me, volta per volta. Potere personale, dunque: ma in che senso? con quali facoltà? Ne sappiamo meno di prima. E poi, il parlamento si lascerà « mediatizzate »? Luigi Salvatorelli