Anche l'antimafia assente nei processi contro i "boss" di Piero Cerati

Anche l'antimafia assente nei processi contro i "boss" Dopo la sentenza dei giudici a Catanzaro Anche l'antimafia assente nei processi contro i "boss" Eppure, la documentazione di cui dispone è ricca di accuse - Il pubblico ministero è solo con la sua arringa di fronte a difensori numerosi e agguerriti - Manca quasi sempre la parte civile (Nostro servizio particolareJ Catanzaro, 1 gennaio. La commissione parlamentare antimafia concluderà i propri lavori entro il prossimo giugno. Lo ha dichiarato il presidente Carrara in un incontro con i giornalisti avvenuto il 22 novembre. Tra le cinque relazioni in via di definizione (su di esse si baseranno le proposte al Parlamento per sradicare il fenomeno mafioso in Italia), una si riferisce ai numerosi processi mafiosi conclusisi per insufficienza di prove. L'ultimo esempio è il dibattimento in corte d'assise d'appello a Catanzaro: Angelo La Barbera, Tommaso Buscetta, Salvatore Greco, Rosario Mancino e altri presunti «boss» mafiosi, indicati nel 1971 dalla commissione antimafia come responsabili di una lunga serie di reati (dal contrabbando, al traffico di droga, al racket dell'edilizia), hanno avuto le condanne ridotte di dieci o addirittura quindici anni. Verdetto ineccepibile nella forma: i giudici popolari hanno ritenuto di dare ragione agli avvocati di difesa, secondo i quali non esistono prove o indizi a carico degli imputati; inoltre, i testimoni che li indicarono come mafiosi hanno ritrattato, dicendo di aver mentito o di avere subito «pressioni durante l'istruttoria». impuniti I testimoni ritrattano e per tacere o per non dover rendere conto delle contraddizioni in cui sono stretti si dichiarano malati, dementi, accampano malattie subite quando erano bambini. La parte civile è inesistente: a Catanzaro sono stati rievocati venti omicidi, violenze, furti, sequestri e stragi, ma l'unico a sostenere l'accusa è stato il procurtore generale, dottor FloriL Di fronte aveva un collegio di difesa agguerrito, almeno trenta avvocati, tra i quali alcuni grossi nomi del foro, corno il professor Casalinuovo. E la commissione antimafia? Quando chiesi al presidente della Corte, dottor Feriamo, se i giudici avrebbero tenuto conto delle biografie di alcuni imputati, consegnate al Parlamento dalla commissione, egli mi rispose: «Quelle relazioni hanno un valore indicativo». Un avvocato di difesa era stato più esplicito: «Il documento dell'antimafia è basato su voci confidenziali raccolte in giro, non su prove e nemmeno su indizi, su rapporti degli organi di polizia: la magistratura ha già assolto molti personaggi dalle accuse che ancora compaiono nel dossier antimafia ». Il verdetto di Catanzaro sembra dargli ragione. Restano impuniti i delitti commes-i dalle cosche mafiose dal 1959 al 1963 e che culminarono nella strage di Ciaculli (una «Giulietta» imbottita di tritolo falciò nel fondo Sirena della borgata palermitana sette persone: agenti, carabinieri, artificieri). Vengono mortificati gli inquirenti, che svolsero l'indagine e permisero il rinvio a giudizio degli imputati con il «rapporto dei 37», in cui non comparve il nome di Pietro Torretta (secondo quanto dice Orazio Barrese in «I complici, gli anni dell'antimafia», ed. Feltrinelli), l'unico «boss» condannato a 29 anni, con un aumento della pena, dai giudici di Catanzaro. Alla dimenticanza pose rimedio il tenente dei carabinieri Mario Malausa, che stilò un rapporto sui « boss » mafiosi, poi fu ucciso a Ciaculli. La società esce sconfitta dallo scontro con la «peste grigia», con l'omertà, i silenzi che circondano gli omicidi mafiosi: al Nord, dove il fenomeno mafioso si è diffuso (.«Alludo alle vicende di Bardonecchia, al racket della manodopera di Torino», disse il senatore Carraro) mancano le prove e i testimoni, anche se le circostanze provano l'esistenza del racket mafioso con la presenza di «boss» temuti e ossequiati. Le strutture giudiziarie sembrano impotenti. Un certo tipo di letteratura ha creato il «mito» della mafia non soltanto tra «noi siciliani che ne sentiamo, in fondo, il fascino», come disse il professor Pietro M. Criscuoli, della clinica per malattie nervose e mentali dell'Università di Palermo, autore di a molte perizie psichiatriche su imputati e testimoni di mafia. A Catanzaro, chiesi alle due donne che facevano, parte della giuria popolare, se non avessero paura, esitazione, timore nel dover giudicare su crimini compiuti dalla mafia e circondati dal silenzio grazie alle minacce, alle punizioni, ai «regolamenti di conti». La risposta fu: «No, anche perché gli appartenenti alla mafia si uccidono soltanto tra di loro». E' questa un'opinione molto diffusa, un tragico errore che dimentica i ricatti, lo sfruttamento, i sequestri di persona, il contrabbando di tabacco e droga e decine di altri reati che colpiscono la società e avvengono nel silenzio perché o imposti col terrore o condotti in modo da eludere le indagini. La mafia è riuscita a crearsi un alone di «giustiziere» e quando elimina i suoi nemici riesce a creare attorno ad essi il sospetto di complicità. in segreto E l'antimafia? Sembra inutile. «Avrebbe valore — dicevano gli avvocati della difesa a Catanzaro — se agisse allo scoperto, come ai suoi tempi la commissione Kefauver negli Stati Uniti; se interrogasse i sospetti di mafiosità davanti a tutti, affinché possano discolparsi o essere accusati apertamente». Invece la commissione lavora «nel segreto istruttorio», giunge a Bardonecchia, si ferma quattro ore, interroga il pretore, il comandante dei carabinieri, i sindaci, prende la documentazione dei sindacati edili (un «dossier» costato fatica e pericoli), ma non interroga i «personaggi» locali, i cui nomi compaiono nei documenti e nelle parole degli interrogati. Così, anche chi ne parla rischia di pagare di persona. Un esempio di utilità concreta dell'antimafia è stato offerto dai giudici che hanno assolto a Palermo i giornalisti accusati di diffamazione per aver rivelato trame mafiose in base ai documenti stilati dalla commissione parlamentare. A Catanzaro, il procuratore generale è rimasto solo ad accusare, a chiedere l'ergastolo e a sentire il verdetto. Perché l'antimafia non si costituisce parte civile nei processi di mafia e porta in corte d'assise la documentazione che in questi anni (la legge è del 20 dicembre 1962) ha raccolto? Il senatore Pafundi, ex presidente della commissione, dichiarò una volta: «Abbiamo raccolto materiale esplosivo»; l'ex presidente Cattanei pubblicò alcune indagini settoriali: vi furono proteste, era troppo poco al confronto di quanto era stato promesso (la denuncia dei veri nodi mafiosi, le collusioni con i poteri pubblici), ma anche questo poco all'apparenza sembra inutile. Invece, le conoscenze acquisite dovrebbero permettere di raggiungere prove concrete e l'immunità parlamentare dovrebbe consentire di denunciare pubblicamente le trame invisibili che la magistratura, codice alla mano, non può individuare e che i giudici popolari non possono colpire. Ora il senatore Carraro dice d'aver svolto un lavoro «essenziale per consentire al Parlamento di prendere decisioni tali da incidere concretamente sul fenomeno mafioso» e la commissione non avrà difficoltà a rendere noti nomi piccoli e grossi di personaggi ritenuti legati ad ambienti mafiosi. Forse qualcosa cambierà e i « boss » saranno messi alle strette. Piero Cerati