Wesker e il teatro fine delle utopie

Wesker e il teatro fine delle utopie Incontro con il drammaturgo inglese Wesker e il teatro fine delle utopie Ha aperto i "Venerdì letterari" parlando di politica e linguaggio Maglione nero, camicia bianca aperta sul collo, capelli lunghi, ha tutta l'aria di uno studente. Invece, anche se non li dimostra, ha quarantatre anni ed è un commediografo, uno dei più noti di quella portentosa generazione di autori, registi e attori che hanno portato il teatro inglese sulla cresta dell'onda e ancora ve lo mantengono. E' Arnold Wesker, appena giunto in volo da Londra per inaugurare la stagione dei « Venerdì letterari» dell'Aci. Sono quasi dieci anni che Wesker manca da Torino, venne nel '66 per la prima allo Stabile del suo dramma Radici. Ma nella sua conferenza al Carignano, che s'intitolava « La miseria di non essere poeta », non ha parlato di teatro, ma del linguaggio e della sua importanza e del suo valore in tempi in cui la violenza tende a sostituirsi al dialogo, l'arte e la cultura vengono buttate dalla finestra, e la pistola diventa la soluzione più semplice perché l'atto di premere un grilletto richiede meno tempo che sviluppare fino in fondo un pensiero. E per la difesa del linguaggio, concretamente nella scuola, Wesker avanza tre proposte: 1) L'educazione non significa assolutamente nulla se le implicazioni delle camere a gas della Germania nazista non sono state fatte presenti alla coscienza dell'allievo; 2) Occorre istituire una nuova materia scolastica che Wesker propone di chiamare « definizione dell'esperienza » e che dovrebbe chiarire a un bambino le cause e i segni di ogni forma di violenza: dal pugno nell'occhio che può ricevere da un compagno al massacro di migliaia di persone. 3) Creare un vocabolario di parole da studiare e discutere in regolari lezioni, una cinquantina di parole che aiutino il ragazzo a comprendere la condizione umana, che servano insomma a definire l'esperienza. Prima della conversazione, rapido incontro con Wesker: la politica è dunque ancora in cima ai suoi pensieri, insieme al teatro, come lo erano entrambi quando lavorava al suo abbastanza utopistico « Center 42 » (all'incirca: una specie di casa o di centro della cultura per i lavoratori). A chi gli chiede notizia di questa sua impresa, Wesker risponde scherzando: «Il Center 42 è nato nel 1962, e in quello stesso anno è morto, o ha cominciato a morire». Per mancanza di fondi, naturalmente. Ma se il Center 42 è in declino, non sono venute meno le speranze, le idealità e anche le generose illusioni che l'avevano alimentato al suo nascere, anche se il suo promotore può aver dato l'impressione, nei suoi più recenti lavori, di un diminuito impegno sociale. Wesker ribatte: «Quando hanno chiesto a Osborne perché non era più tanto "arrabbiato", lui ha ri¬ sposto che " arrabbiati " lo erano ormai anche gli altri. Potrei rispondere nello stesso modo». Inevitabilmente, il discorso si è spostato sul famoso gruppo di cui Osborne era il capofila e nel quale Wesker è solitamente ma inesattamente confuso. «E' un errore — avverte lo scrittore — pensare agli arrabbiati come a un gruppo. Ciascuno di essi è molto differente dagli altri sia per la sua posizione sìa per l'impatto che ha avuto col pubblico». Dal teatro ad altri argomenti. Ora è Wesker a interrogare, vorrebbe sapere che cosa pensano gli italiani del Nobel assegnato a un loro poeta (che lui, purtroppo, non conosce). Cerchiamo di spiegarglielo e gli chiediamo a chi l'avrebbe dato dei suoi connazionali: a Doris Lessing, risponde subito. E' una sua collega e anche narratrice. Si parla poi di letteratura, della figura dell'intellettuale, della contrapposizione tra città e campagna («Ma la vera contrapposizione — spiega Wesker — è tra città umana e città non umana») per tornare alla fine a parlare di teatro. Saltano fuori tre titoli, sono le commedie che Wesker ha appena terminato o sta terminando. La prima, I giornalisti, non è ancora stata rappresentata, anzi ha qualche difficoltà ad esserlo, non tanto, come si potrebbe supporre, per l'argomento, quanto per il gran numero di interpreti che richiede. Sono trentadue personaggi che si muovono per i vari reparti di un grande quotidiano press'a poco come i quasi altrettanto numerosi personaggi della Cucina, alla quale la nuova commedia tecnicamente si apparenta, si muovevano fra i fornelli di un grande ristorante. La seconda invece, Festa di matrimonio, è già stata rappresentata in alcune città inglesi. Incuriosisce il titolo della terza, Il mercante di Venezia, che, si sa, è un titolo di Shakespeare. E proprio di Shakespeare si tratta, di un rifacimento o di un adattamento della sua celebre commedia. Alberto Blandi

Luoghi citati: Germania, Londra, Torino, Venezia