SCIASCIA CONCLUDE LA POLEMICA SULLO SCIENZIATO SCOMPARSO

SCIASCIA CONCLUDE LA POLEMICA SULLO SCIENZIATO SCOMPARSO SCIASCIA CONCLUDE LA POLEMICA SULLO SCIENZIATO SCOMPARSO Majorana, l'atomo, il no alla scienza Credo non dispiacerà ai lettori de La Stampa che nella scorsa estate hanno seguito le sette puntate del mio racconto-pamphlet sulla scomparsa di Majorana, avete ola un sommario ragguaglio della polemica che ne è scattata e una altrettanto sommaria esposizione delle ragioni per cui io ritengo di non dover tenere conto dei suggerimenti e delle riprovazioni che sono state avanzate e di riconfermare punto per punto quel che allora ho pubblicato su questo giornale e poi, con l'aggiunta di una decina di note, nel volumetto di edizione Einaudi. In quanto alle note, dico subito che erano già scritte nel momento in cui il giornale cominciava la pubblicazione del testo: ma le cose su un giornale vanno pubblicate come su un giornale, non come sul bollettino dantesco o su una rassegna scientifica. Le note mi era parso, e mi pare, fossero su un giornale una incongruenza tipografica, un appesantimento — per il lettore — quasi minaccioso. Questo lo dico perché il professore Edoardo Arnaldi, che conduce accanita polemica contro il mio racconto-pamphlet, insinua che io abbia scritto le note dopo i primi suoi colpi, e per pararmeli. Lo insinua in veneto, con un proverbio veneto {Corriere della Sera del 30 novembre): ed è fenomeno da analizzare, questo ricorrere del professore Amaldi al dialetto veneto o a un linguaggio oscuro quando deve dire qualcosa di offensivo. Accecato dall'ira, il professore non ha badato a questo piccolo dato di fatto: che il suo primo articolo su L'Espresso è uscito il 5 ottobre, e che a quella data il libro era già stampato se non addirittura in libreria. Ma temo non servirà a nulla nemmeno questo mio richiamo a un dato di fatto facilmente controllabile: i tre articoli polemici finora pubblicati dal professore Arnaldi ripetono le stesse cose, rivoltano gli stessi argomenti, con una costanza degna di migliore e più sicura causa. Che sono poi cose, argomenti, diciamo di contorno: se Bohr era o no rimbambito, se il concorso da cui Majorana fu eliminato ebbe o no impronta di correttezza, se i rapporti tra Majorana e Fermi erano o no amichevoli. Riguardo al tema centrale del mio scritto, e cioè la responsabilità degli scienziati, il professore ineffabilmente dice (nell'articolo sul Corriere): « Non tratto qui il grosso problema della responsabilità degli scienziati perché un suo esame richiederebbe molto spazio e un breve cenno alla mia posizione è già apparso su L'Espresso del 5 ottobre ». Un breve cenno. Ed è questo: « La questione va affrontata a molti livelli, ma non voglio qui addentrarmi in un cosi difficile problema che esorbita di gran lunga dallo scopo e limiti di queste mk osservazioni ». A quali livelli, il professore lo spiega la settimana dopo, sempre su L'Espresso: dopo aver detto che l'argomento è grosso, difficile; che ci sono decine e decine di volumi che ne trattano, organizzazioni nazionali e internazionali che se ne occupano, decine di pubblicazioni che ne discutono, conclude assicurandomi che nessuno sarebbe più contento della stragrande maggioranza degli scienziati se si trovasse una soluzione del problema. Si badi: se si trovasse. Vale a dire che bisogna cercarla a tutti i livelli, la soluzione, tranne che al livello degli scienziati stessi. Trovate una soluzione, per questi poveri scienziati: e li farete felici. Nel frattempo, un gruppo di poveri e infelici scienziati, per non starsene con le mani in mano mentre aspettano la soluzione del problema che li angoscia, pubblicavano, all'insegna della National Academy of Sciences di Washington, le più che duecento pagine del Long-Term Worldwide Effects of Multiple Nticlear-Weapons Detonations, cioè quel mostruoso rapporto in cui solennemente (e, si capisce, scientificamente) all'umanità tutta viene impartita l'assicurazione che l'eventuale impiego, e massiccio, di armi nucleari non distruggerebbe del tutto il nostro pianeta; e anzi, come non sarebbero poi terribili i danni immediati, così le conseguenze nell'ecosistema e nella somatica e genetica umana sarebbero limitate nel tempo. Ancora un piccolo passo: e diranno che le esplosioni nucleari migliorano il sistema ecologico e fanno bene alla salute. (Ho questo rapporto sul mio tavolo: porta in copertina « una specie di bollo con questa dicitura: « The National Research Council », al centro; « Institute of Medicine », « National Academy of Engineering », « National Academy of Sciences », intorno. Non solo i fisici, dunque: anche i medici!). E non parliamo poi di quel che altri poveri e infelici scienziati fanno nel campo della biologia: ne ha parlato — in accusa, con indignazione — il professor Alberto Monroy, biologo, nel dibattito che il giornale L'Ora ha aperto sulla Scomparsa di Majorana. In questo dibattito, l'intervista di Ferdinando Scianna al fisico Jean-Pierre Vigier {L'Ora del 27 novembre) è di un interesse che va al di là dell'occasione, resta come la inequivoca e inequivocabile posizione di uno scienziato in quello che io chiamo « il rifiuto della scienza ». Rispetto all'occasione, e cioè al mio libro, Vigier non è meno netto: alia prima domanda, se crede che Majorana possa avere intuito gli esiti di distruzione delle ricerche ato¬ miche, « risponde di si, che è possibile, che in definitiva tutti gli elementi erano già 11 perché un genio potesse, mettendoli assieme, arrivare ad una simile intuizione ». E più avanti dice: « Prima di Los Alamos, forse, e per le persone che vi costruirono la bomba A, era ancora possibile porre il problema in termini di rifiuto individuale, di coscienza. Se non fossero stati loro a costruire la bomba atomica nessun altro in quel momento avrebbe potuto farlo. In quel momento, ma non per molto tempo. Per Majorana era forse ancora possibile reagire al terrore di un'intuizione di morte con il rifiuto, con la scomparsa. Da allora, e subito dopo, non fu più possibile, non è più possibile. La stessa organizzazione moderna della scienza lo rende impossibile. Non che il problema di coscienza e della responsabilità individuale abbia per questo perso importanza. Io, e altri ben più importanti di me, ci siamo rifiutati di costruire la bomba atomica francese; ma altri l'hanno fatta ». aiuto agli istituti scientifici (al punto che Fermi fece tutta la grossa serie delle ricerche sui neutroni con ventimila lire), come mai ad un certo punto entra nell'ordine di idee di spendere una somma per allora enorme nella costruzione di un impianto per la preparazione di sostanze radioattive? * * Ma scendiamo ai dettagli: sui quali il professore Arnaldi preferisce esercitare il suo acume polemico. Heisenberg, gli scienziati tedeschi, il nazismo. Su questo punto non è al professore Amaldi che rispondo. Discuto piuttosto quella parte dell'intervista di Scianna in cui JeanPierre Vigier afferma che gli scienziati tedeschi, e Heisenberg in testa, fecero quanto potevano per costruire l'atomica: solo che non seppero. Contrariamente a quanto crede il professore Arnaldi, che non si stanca di additarmi come scarsamente documentato e di suggerirmi letture, io ho letto, in ordine alla storia della ricerca scientifica tra il '30 e il '45, tutto quel che mi è stato possibile leggere. Da queste letture, il personaggio Heisenberg mi si è configurato come vittima di pregiudizi e antipatie. Lo stesso Einstein — uomo, lo so bene, di alta e severa coscienza — credo fosse portato a una certa prevenzione e diffidenza nei riguardi di Heisenberg: prevenzione e diffidenza scientifica (il principio d'indeterminazione) che forse (o certamente e inevitabilmente: come succede ad ognuno) sconfinava sul piano umano. Per me, leggendo su Heisenberg quello che ho letto, e di Heisenberg i libri che sono stati pubblicati in Italia, il personaggio, cioè il suo dramma, il :,uo esser vittima di un pregiudizio più che di un giudizio, mi pare si possa definire con quel che dice Tacito di Marco Lepido, nel quarto libro degli Annali: « Mi risulta essere stato, codesto Lepido, uomo per quei tempi fermo e saggio; più e più volte temperò la servile intransigenza di altri; e non mancò di accortezza, se potè sempre godere presso Tiberio di immutata autorità e simpatia. Il che mi porta a dubitare se, come in tante altre cose, non sia un gioco del caso anche quello che sin dal nascere assegna agli uni il favore dei principi, agli altri l'avversione; o non abbia invece radice nel senno nostro, sicché ben si possa, lontani del pari dallo strisciante ossequio e dalla caparbia opposizione, percorrere la propria via sgombra da intrighi e da pericoli ». A differenza di Marco Lepido, Heisenberg non fu simpatico ad Hitler e ai nazisti: con disprezzo lo chiamavano « l'ebreo bianco », « il viceré di Einstein ». Ma benché si sentisse minacciato, Heisenberg seppe tenersi lontano dallo « strisciante ossequio ». Si tenne lontano anche dall'opposizione, rifiutò di restare in America quando già il nazismo aveva scatenato o stava per scatenare la seconda guerra mondiale: ma non si può far colpa ad un uomo di amare la propria terra, di non poter starne lontano (ricordiamoci del dolore e della paura di Pasternak, quando gli si prospettò l'esilio). Dice Alberto Cavallari nella « notizia » che accompagna la sua interessante intervista con Heisenberg (nel volume L'Europa intelligente. Milano, 1963): «Dopo la scoperta della fissione da parte di Hahn l'ostilità nazista per Heisenberg s'attenuò. Dal 1941 il governo tedesco gli affidò le ricerche nucleari e la costruzione di una pila atomica, ma i bombardamenti dei laboratori, l'atteggiamento stesso di Heisenberg, il suo scarso impegno, non portarono a nessuna rapida conclusione». Certo, è difficile dire fino a che punto Heisenberg non volesse p. fino a che punto non potesse costruire l'atomica per Hitler: di sicuro sappiamo, attraverso quello che ha scritto prima e dopo, e magari tenendo solo presenti il libro Mutamenti nelle basi della scienza, pubblicato in Germania al principio del '42 (e in Italia, da Einaudi, nel '44), e la sua presa di posizione contro il riarmo atomico tedesco, nel '57; di sicuro sappiamo che il suo punto di vi¬ sta, nei riguardi dei rapporti tra scienza e società, tra scienza e potere, non subisce alcuna modifica nel passaggio dall'epoca nazista all'epoca, diciamo, atlantista. Nella prefazione al libro del '42 scrive: «I singoli passi della ricerca scientifica sono spesso tanto complicati, e la loro spiegazione è tanto difficile, che essi possono essere seguiti solo da un piccolo gruppo di non specialisti. Ma i grandi mutamenti interessano una vasta cerchia di persone e da questa debbono essere compresi... L'autore è convinto che questa situazione — uno dei molti sintomi di un periodo di transizione — annunci una profonda trasformazione nella struttura dell'i-tera realtà; dove con la parola realtà si indica il complesso dei rapporti che si stabiliscono tra la coscienza formatrice e il mondo considerato come contenuto obiettivabile di tale coscienza ». Sono parole scritte in pieno nazismo: e vi si può cogliere un anticipo di uno dei « 21 punti su I fisici» di Diirrenmatt: « Il contenuto della fisica riguarda solo i fisici, i suoi effetti riguardano tutti ». deschi dall'accusa di aver lavorato seriamente, anche se senza successo, all'atomica per Hitler (ma nemmeno io li assolvo tutti), non si capisce se tenda a scagionare Heisenberg o a metterlo nel mazzo. Il professore Ugo Palma (in un intervento pubblicato da L'Ora) mi ha informato che Arnaldi tenne, al Congresso Internazionale di Como, nel 1949, un «ruolo generoso ed umano »: e temo ciò significhi che era convinto di difendere un colpevole. Credo sia preferibile, in simili casi, tenere sempre un ruolo soltanto giusto. * ★ La Sicilia e la scienza. Per la mia affermazione che la Sicilia per duemila anni non aveva dato uno scienziato e che l'assenza più che il rifiuto della scienza vi era diventata forma di vita, si è accesa come una gara di amore alla Sicilia da far pensare a quella di Amleto e Laerte sulla tomba di Ofelia. Su una tomba appunto: la tomba che per duemila anni è stata della scienza, in Sicilia. Potrei rimandare a un mio scritto, pubblicato anni addietro sul Caffè, in cui parlando dei « mostri » della Villa Palagonia facevo delle considerazioni in tal senso; potrei rimandare al mio libretto Morte dell'inquisitore. Ma preferisco citare un brr.no del discorso tenuto da Marcello Carapezza, ordinario Ji geochimica all'Università di Palermo, il 24 ottobre di quest'anno, alla Società di Storia Patria palermitana: « Un secolo fa erano ancora vivi quasi tutti gli uomini che avevano determinato la nascita stessa della scienza in Sicilia. Questa scienza nasceva dal deserto, dal nulla. In Sicilia non c'era tradizione, non c'era alcuna scuola, non c'era alcuno scambio. C'era invece una sorta di anticultura scientifica fatta da pregiudizi e da dogmi, appoggiata a figure piene d'ignoranza, di bigottismo, di retorica, di protervia... Ribadiamo con serenità, come ha scritto recentemente Leonardo Sciascia, che questa anticultura dura proprio duemila anni: dal 212 a. C, data in cui viene ucciso Archimede, al 1787, data in cui viene offerta una cattedra di agraria a Paolo Balsamo, che è la prima persona ad insegnare qualcosa che abbia una validità scientifica, e sia pure di scienza applicata ». Queste affermazioni non suscitarono tra gli uomini di scienza, gli storici e i letterati presenti (si trattava di un congresso sulla storia civile, lette raria e scientifica della Sicilia) alcuna reazione. Non capisco perché debbano suscitarne le mie. O meglio: capisco che un'accusa di lesa patria, in una polemica, fa sempre effetto. Ma sugli imbecilli. * * Majorana e il nazismo. Su questo punto, bisogna riconoscerlo, il professore Arnaldi non ha perso l'occasione di tacere, di cui avrebbe dovuto approfittare anche su altri punti. Ma è un punto su cui sempre si è sussurrato e insinuato e che ora, in difesa di Arnaldi, solleva il professor Erasmo Recami. Il professor Recami è un amico, una persona che stimo, una persona cui debbo l'accesso alla maggior parte dei documenti di cui mi sono servite; ma quando scrive che, tra i meriti di Arnaldi verso Majorana c'è quello di non aver voluto divulgare una lettera di Majorana a Segrè, una lettera di elogio al nazismo, non posso fare a meno di polemizzare con lui, anche se solamente per la parte che gli compete; e cioè il credere che l'andar dicendo « ho una lettera di Majorana che non pubblico per non ledere la sua memoria» sia fatto più rispettoso, devoto e nobile che il pubblicarla. Questo parlare della lettera senza mai tirarla fuori è piuttosto ignobile. E poi: esiste ancora, questa famosa lettera? Nella sua Nota biografica di Ettore Majorana, Arnaldi scriveva: «Nel periodo trascorso all'estero Majorana fu molto colpito dal livello economico e organizzativo tedesco tanto da concepire una grande ammirazione per la Germania, ammirazione che espresse in alcune occasioni, in particolare in una lettera a Emilio Segrè: questa lettera sfortunatamente andò perduta, insieme ad altri documenti spediti dall'Italia agli Stati Uniti, nell'affondamento dell'Andrea Doria, avvenuto il 25 luglio 1956 ». E si noti — voce dal sen fuggita, si sarebbe detto una volta; lapsus inconscio, si direbbe oggi — lo « sfortunatamente ». Già, sfortunatamente. E comunque: c'è o non c'è, questa lettera? Se c'è, chi ce l'ha la pubblichi una buona volta: e finisca di far credere che Majorana abbia — che so? — approvato le camere a gas, che allora peraltro non c'erano. Io posso dire questo: che contro una sola fantomatica lettera di elogio al nazismo — « che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa » — io ne ho una ventina, in cui si parla della Germania e dell'ascesa al potere del nazismo, assolutamente oggettive nel riferire i fatti, assolutamente prive di entusiasmo. * ★ 17 concorso, la cattedra per chiara fama. Io non ho mai detto che i tre che vinsero il concorso non meritassero di vincerlo, che non lo meritasse il figlio di Giovanni Gentile. Non sono entrato, come dicono i giuristi, nel merito: mi sono limitato a giudicare la forma. Tutto quello che è venuto scrivendo il professore Arnaldi, tutto quello che ha detto altri su L'Espresso e il professore Recami su questo giornale, non spostano di un millimetro la questione: Majorana è stato chiamato per « chiara fama » alla cattedra di Napoli per far sì che la terna venisse varata per come predisposta e per impedire che il figlio di Gentile ne uscisse. Che il professore Recami trovi « intelligente ed elegante » la soluzione escogitata da Gentile padre, potrei anche essere d'accordo: a patto che non ci fosse stato di mezzo il figlio. Se una soluzione la troviamo per aiutare un nostro figlio, magari la si può giudicare intelligente; ma elegante no, in nessun caso. In quanto poi al passo di Laura Fermi, la cui lettera è di cristallina chiarezza (e come raccomandava Jacopone: « Dov'è chiara la lettera non fare oscura glosa »), trovo molto ameno il fatto, riferito dal professore Recami, che essa, « interpellata a proposito, si è rimessa all'interpretazione di Arnaldi ». * * Ma non voglio — anche se forse sarebbe il cnso — sconfinare nel divertimento. Non ho scritto La scomparsa di Majorana per divertirmi a provocare il professore Arnaldi. L'ho scritto per rabbia e per paura. La rabbia e la paura — come diceva Camus — di vivere contro un muro, di vedere la vita diventare sempre più una vita da cani. «Vivere contro un muro, è vita da cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà, hanno vissuto e vivono sempre più come cani ». Grazie anche alla scienza, grazie soprattutto alla scienza. Leonardo Sciascia Leonardo Sciascia (a sinistra) ed Edoardo Arnaldi, protagonisti della polemica