Il bus per utopia

Il bus per utopia DIFESA DEI BENI CULTURALI Il bus per utopia /I Consiglio del ministri ha approvato i decreti delegati per la riorganizzazione del ministero per ì Beni culturali presentati dal ministro Spadolini. Le innovazioni principali riguardano la costituzione del Consiglio nazionale dei beni culturali, dei comitati di settore, dei comitati regionali e delle conferenze regionali dei soprintendenti. Sul problema della tutela del patrimonio storico-artistico interviene il prof. A. Passerin d'Entrèves. Il titolo non è mio. Lo traggo da un libro recente di un giovane docente di sociologia e di filosofia del diritto, Massimo Corsale. L'utopia sarebbe una società diversa da quella in cui viviamo, una società «alternativa»; l'autobus per arrivarci, i beni culturali. Soffia nel libro un'aura vivace di contestazione. Vi si fa un grand'uso dei testi prediletti dalle nuove generazioni, da Marx a Marcuse, da Illich a McLuhan. Ma l'autore ha un merito che bisogna riconoscergli: di porre una domanda spesso trascurata. Perché tutelare i beni culturali? Personalmente, mi son chiesto molte volte che cosa risponderei se, preso alla sprovvista, una domanda come questa mi venisse rivolta all'improvviso. In una società come la nostra, caratterizzata da un processo in apparenza inarrestabile di desacralizzazione di tutti i valori, come spiegare e più ancora come giustificare l'intento conservatore che ispira la tutela di quelle vestigia del passato che costituiscono appunto i beni culturali? Con quali argomenti che non siano di accademica pedanteria, di vanagloria nazionale o di puro interesse turistico possiamo affermare la necessità di mantenere intatto il nostro patrimonio artistico, di non alterare certe prospettive urbanistiche, di salvaguardare un determinato paesaggio — di non «realizzare », in una parola, le sostanze avite per ricavarne maggior costrutto con altre e nuove forme di investimento? Per rispondere a domande di tal fatta mi sembra molto utile la distinzione proposta da Corsale fra tre modi di intendere i beni culturali, o « monumenti » com'egli li chiama: come simboli, come opere di arte e come documenti storici. Meno controverso e controvertibile il valore del monumento come documento storico, anche se la piena consapevolezza del suo significato come tale sia cosa relativamente recente, com'è recente il riconoscimento della relatività delle singole esperienze culturali nel tempo e nello spazio. Più complesso il caso del monumento come opera d'arte, non soltanto perché la consapevolezza dell'autonomia della creazione artistica è anche essa cosa relativamente recente, ma perché per lungo tempo l'opera d'arte ha assolto altri scopi accanto e oltre a quello del puro godimento estetico. Comunque, che il possesso di documenti storici e di opere d'arte implichi per il possessore una responsabilità verso terzi, per non dire verso l'umanità — sia per quanto riguarda la loro disponibilità che per quanto riguarda la loro conservazione — sembra fuori dubbio anche al nostro giovane contestatore. Su questo punto dunque possiamo dire di essere tutti d'accordo. E' la dimensione del monumento, del bene culturale come simbolo, quella che porge al Corsale l'estro per le sue osservazioni più pungenti: come simbolo, come « atto celebrativo », e cioè in sostanza come strumento per cementare una società col rivestirne di un alone di prestigio le tradizioni, le istituzioni e i valori. Solo tenendo conto di tale dimensione è possibile intendere l'importanza attribuita ai «monumenti» nelle società del passato, e la sorte toccata a molti di essi nel corso dei grandi rivolgimenti storici che segnarono il trapasso da una società all'altra. Distruggere o manomettere tali monumenti significava infatti per i vincitori recidere quei legami, cancellare quei punti di riferimento ideali attraverso ai quali i vinti avrebbero potuto salvaguardare la loro identità storica e trarre la forza per un'eventuale rivincita: si pensi alla distruzione dei templi e di opere d'arte greche e romane col trionfo del Cristianesimo, o al comportamento doi conquistatori europei nei paesi coloniali. Orbene, sarebbe proprio nei riguardi di quest'ultima dimensione che la società contemporanea, la società industriale, si dimostrerebbe più deficiente. I simboli delle antiche società non servivano difatti soltanto a convalidarne le strutture gerarchiche ed a legittimare il potere. Erano ud anche ad un tempo l'espressione, anzi la sublimazione di una visione dell'uomo e del mondo suscettibile di dare un significato alla vita. La società contemporanea invece, se da un lato ha sottoposto e sottopone ad un processo di erosione e di assorbimento le preesistenti realtà culturali ed i simboli in cui queste trovarono espressione, dall'altro non è riuscita a proporre altri simboli se non quelli di potenza (del potere dell'uomo sulla natura) e quelli di status (del potere dell'uomo sull'uomo). Di qui « la perdita di senso trascendente la piatta banalità del quotidiano, l'esistenziale diminuzione di peso, quella che comunemente si chiama alienazione»; di qui anche il progressivo svuotamento di significato cui va incontro il patrimonio di monumenti-simboli, il dileguare di quell'« alone di connotazioni, di quella relativa ambiguità » che permetteva all'« utente » di appropriarsi emotivamente del simbolo e di utilizzarlo come stimolo per un'ulteriore creazione. A che prò dunque la tutela dei beni culturali se nella società in cui ci tocca vivere non siamo più in grado di coglierne il messaggio essenziale né di « utilizzarli » per la produzione di nuovi beni? Non è forse chiaro che, in una situazione come questa, la pura conservazione equivale a un tradimento? Sono questi gli interrogativi che il Corsale solleva a giustificazione della sua tesi, che la salvezza possa trovarsi soltanto in « una società alternativa, che superi le contraddizioni fondamentali presenti nell'attuale, e che soprattutto recuperi quella capacità culturalmente creativa che quest'ultima sembra aver perso irreparabilmente ». Una utopia certamente, ma « un'utopia necessaria, se si vuole prevenire la catastrofe cui contraddizione e aridità ci stanno ineluttabilmente conducendo: e per quest'utopia necessaria conviene certamente utilizzar? anche l'autobus che ci viene fornito dai beni culturali ». Mi accorgo di aver dato molto, forse troppo rilievo a quella che non è forse altro dopotutto che una fra le innumerevoli manifestazioni di scontento giovanile che quotidianamente incontriamo sulle colonne dei giornali e nell'editoria del nostro paese. Ma nel libro di Corsale mi è parso di trovar illustrata con particolare evidenza la contraddi¬ zione in cui si dibatte certo populismo dei giovani, inleso da un lato ad esaltare una nuova, una « contro-cultura », maturata dal basso, per opera di quella che nel gergo corrente vien chiamata la « classe subalterna », e dall'altro costretta a riconoscere che a « gestirne il patrimonio » — a prender il volante dell'autobus! — è pur necessaria la guida degli esperti, e sia pure di un tipo di intellettuali che rifiutino « di farsi strumento della cultura dominante »; comunque, di un'elite. Contraddizione, ma anche ingenuità giovanile o, se si vuole, eccessiva fiducia nelle capacità redentrici di quello che un tempo si sarebbe chiamato il buonsenso popolare. A leggere la polemica di Corsale contro la tutela statale dei beni culturali, nel veder messe a nudo le sue insufficienze e la sua incongruità, ci si può anche trovare in buona parte d'accordo. Ma assai dubbioso mi lascia la sua proposta di « deprofessionalizzare » la funzione di tutela, e di affidarne il compito direttamente alle comunità interessate. Può darsi, certo, che talune comunità in qualche modo circoscritte e limitate siano ancora in grado di ritrovare in quei beni la conferma della propria individualità storica e culturale, e di valersene per « sottrarsi alle alclnescbe seduzioni delle proposte integrative e assorbenti della cultura della società tecnocratica ». E' ciò che sembra esser avvenuto in questi ultimi decenni e in talune parti d'Europa col riaffermarsi delle «patrie proibite», colla vigorosa ripresa di un particolarismo etnico e linguistico miracolosamente sopravvissuto a secoli di accentramento e di livellamento statuale. Ma troppo spesso queste rinascite rimangono puramente velleitarie, o quel ch'è peggio finiscono per degenerare in semplici reviviscenze folcloristiche, avulse dalla vita quotidiana e dalla coscienza popolare. E quanto azzardato sia fare affidamento sulla tutela esclusivamente locale dei beni culturali è purtroppo attestato dallo scempio che proprio in questi anni e proprio in seno a quelle comunità, si è venuto compiendo di un patrimonio che sia pur marginalmente rientra nell'ambito di quei beni: il patrimonio paesistico delle nostre vallate alpine. A. Passerin d'Entrèves

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