La nostalgia degli inglesi di Mario Deaglio

La nostalgia degli inglesi FORSE UNA SVOLTA NELLA CRISI CHE DURA DA 30 ANNI La nostalgia degli inglesi Fiorisce il mercato delle cose "di seconda mano": perché molti hanno bisogno di venderle, ma anche per il fascino o il rimpianto del passato - E' uno stato d'animo non privo d'aspetti positivi, che tuttavia può indebolire l'impegno per la ripresa (Dal nostro inviato speciale) Londra, novembre. Chi giunge in Inghilterra dal continente all'inizio della brutta stagione si accorge subito che la temperatura nelle case è molto inferiore a quella cui siamo abituati in gran parte d'Europa. Il riscaldamento centrale è limitato quasi soltanto agli edifici pubblici; nelle abitazioni domina ancora il caminetto, a gas oppure ad elettricità e talora ancora a legna, con l'aggiunta di stufette di ogni genere, spesso vecchissime. In Inghilterra, in sostanza, ci si riscalda più o meno allo stesso modo di trenta o cinquantanni fa. Si tratta di un aspetto abbastanza marginale, anche se a questa stagione risulta uno dei più vistosi, della sostanziale stazionarietà della vita in Gran Bretagna. Si vive immersi in una sensazione di « permanenza », di « eternità delle cose », che rappresenta forse l'eredità più gravosa dell'età vittoriana. Tra il 1850 ed il 1900, nell'epoca d'oro dell'Impero, tutto venne modellato per essere definitivo, dalle fabbriche al modo di vestire, dalle ferrovie al Parlamento ed al cerimoniale di Corte. Da allora non si è verificato alcun mutamento violento. La Gran Bretagna non ha vissuto l'esperienza di un'occupazione straniera, di una sconfitta militare, di una lacerazione sociale, come invece le hanno vissute la Germania, l'Italia, la Francia e quasi tutti gli altri paesi del Continente. La seconda guerra mondiale è servita a confermare, anche se ancora per pochi anni, il modello tradizionale, non a smentirlo: ha dimostrato infatti che il paese, condotto secondo le vecchie regole dalle antiche famiglie di aristocratici (da cui. discendevano, oltre a Churchill, anche buona parte dei membri deZZ'establishment, poteva vincere una guerra moderna. Per questo motivo, nell'attuale momento in cui il modello tradizionale decisamente non serve più, e con il venir meno dell'Impero la Gran Bretagna trova così difficile cambiare, non riesce a trovare un punto fermo per un deciso mutamento di rotta che le consenta di arrestare il proces- so di stagnazione che si protrae ormai da trent'anni. Il senso di « eternità delle cose » ha portato ad importanti modificazioni nella scala dei valori della società inglese, modificazioni che a chi proviene dall'estero, paiono spesso autentiche aberrazioni. Una di queste, quasi emblematica è il culto di ciò che è vecchio: gli oggetti si logorano, si consumano, il tempo li ricopre di una patina, ma si esita a buttarli oppure distruggerli. In nessun paese moderno, credo, si fa tanto commercio di roba usata come in Gran Bretagna. La moda della giacca un po' lisa è tipicamente inglese, come lo è la quasi osten- tazione dell'auto vecchiotta e rabberciata. Le tazzine da té di cinquantanni fa, i piattini con i ritratti della Regina Vittoria o del Principe Alberto, i vestiti delle bambole di prima della grande guerra, tutto è potenzialmente riutilizzabile. Nel «mercatino » di Portobello Road si ritrova una quantità impressionante di oggetti, non propriamente antichi ma spesso neppure più solamente vecchi, da fare invidia ai «mercati delle pulci » di qualsiasi parte del mondo. A Portobello Road ci vanno soprattutto i turisti stranieri, in particolare gli italiani e gli americani, attratti dalla speranza di un buon affare (oggi rarissimo). Tutta Londra, però, pullula di commerci di roba vecchia. Da moltissimo tempo l'abitudine di vendere i propri vestiti, quando non servonò più, ha dato vita ad un fiorente commercio per i rigattieri; dall'« East End », la zona povera presso il porto, esso si sta estendendo progressivamente ai quartieri eleganti, alle vie come Oxford Street. Qui è possibile trovare jeans e cinture di pelle, radio e giacche a vento, articoli da campeggio e foto pornografiche, tutto di seconda mano. Un antico e rispettabile negozio del West End espone un'insegna che proclama « qui si affittano abiti da cerimonia». Se un inglese ha bisogno di un mobile o di una poltrona, il suo primo impulso è spesso quello di comprarlo di seconda mano; non prova al proposito alcun senso di vergogna, di «perdita dì faccia », come capiterebbe frequentemente ad un italiano o a un francese. Al tempo stesso, disfarsi di vecchia paccottiglia racimolando qualche sterlina è diventato normale per certa borghesia, la quale non ha nessun pudore a parlare, con amici e con estranei delle proprie difficoltà finanziarie. La sedia, il tavolino non vi piacciono più? Cedeteli a un rivenditore. Avete bisogno di soldi? Cercate in soffitta tra gli scialli di vo- I stra nonna, i cucchiaini di j Silver piate, le riviste di cinquantanni fa. Probabilmente qualcosa troverete. Un'organizzazione estesa ed efficiente fa ricomparire questi oggetti sui mercatini per turisti, nelle junk sales: queste vendite specializzate di roba usata si svolgono soprattutto nei giorni festivi e sono assiduamente frequentate dalle massaie alla ricerca di una poltrona per il salotto o di un portaombrelli per l'ingresso. Che osa nasconde un simile umore del passato, un simile apparente rifiuto di alcuni degli aspetti più vistesi del consumismo? Si tratta d'una filosofia della vita diversa da quella degli altri europei, sdegnosa di certe manifestazioni estreme del benessere materiale? O non sarà forse che gli inglesi dicono di no a certi consumi come la volpe della favola diceva di no all'uva, perché non possono permetterseli? Entrambi i motivi sono presenti, ma il secondo pare oggi nettamente prevalente: dietro al boom dell'usato traspare l'incipiente povertà di una classe borghese assillata dalle imposte: un suo impoverimento relativo, sopportato sempre con molta dignità e, quando non è possibile nasconderlo, perfino con una parvenza d'allegria. Questo impoverimento relativo è tipico di tutta la situazione inglese. L'Inghilterra sta continuamente perdendo terreno rispetto al resto del mondo occidentale. Tra i diciotto membri del l'Ocse, la Gran Bretagna figura ormai all'undicesimo posto in quanto a reddito per abitante. Si tratta di un livello appena superiore a quello italiano; è prevedibile che in pochi anni anche noi avremo pienamente raggiunto questo paese che, appena mezzo secolo fa, vanta- va il livello di vita più elevato del mondo. Allora l'inglese medio mangiava meglio e viveva più a lungo del cittadino medio di qualsiasi altro paese, mentre oggi ha ormai perso tutti i primati di questo tipo. Il declino non riguarda unicamente i consumi privati: oggi gli inglesi non solo posseggono meno frigoriferi e lavatrici dei loro vicini, ma possono anche contare su di un numero minore di medici e di posti letto negli ospedali e su minori possibilità di dare ai giovani un'istruzione media e superiore di quante ne esistano in Francia, in Germania, negli Usa. A mascherare questo declino ha contribuito, finora, un certo numero di aspetti positivi che rendono la vita in Inghilterra non solo tollerabile ma spesso anche piacevole. Londra è ancora un'eccezione alla norma che vuole le grandi città uniformi, disumanizzanti, violente ed ingovernabili. Vi prevale invece una ricca vita comunitaria, con l'incrociarsi ed il tollerarsi reciproco di una molteplicità di razze e di culture diverse. Venuta meno una fredda « vernice » imperiale, stanno riapparendo svariate caratteristiche popolari, un tempo sommerse dalla cultura ufficiale: l'umorismo pungente dei cockneys (i londinesi purosangue, per certi versi paragonabili ai romani), l'operosità dei commercianti ebrei, una componente bohémienne rappresentata dai giovani universitari, sempre disperatamente a corto di quattrini, la coscienziosità quasi montanara degli scozzesi che, anche quando emigrano a Londra, non perdono né il forte accento né la predilezione per i mestieri tecnici e meccanici. Questa società, tuttora ricchissima di valori e di energie umane, subisce oggi la forte tentazione di chiudersi in se stessa, quasi di fuggire dalla realtà, d'illudersi che ì suoi insuccessi economici non sono importanti. Non c un caso che le critiche all'idea di sviluppo, al mito dell'aumento del reddito nazionale come misura del successo di un paese, abbiano trovato proprio qui un terreno fertilissimo. C'è il pericolo che l'Inghilterra, il paese più aperto ed « internazionale » del mondo negli ultimi centocìnquant'anni, possa mutare radicalmente. Ne sono indizi, oltre a questa generica « fuga dalla realtà», gli accenni sempre più inquietanti al protezionismo (che il ministro Peter Shore ha recentemente ribadito alla Comunità Europea) e l'azione, spesso apertamente antagonista nei confronti della Comunità stessa, svolta negli ultimi mesi dalla diplomazia inglese in nome di un angusto interesse nazionale. Alla guida del partito conservatore l'europeista Heath è stato sostituito dalla signora Thatcher, rappresentante di una « little England » della borghesia suburbana la cui massima aspirazione è una normalità stabile, anche se grigia. Ora che la crisi economica manifesta tutta la sua durezza, questa normalità appare seriamente in pericolo. Non solo non ci sono più i fondi per costruire nuovi ospedali, nuove università, nuove fabbriche. C'è il pericolo che neppure si riesca a far funzionare gli ospedali e le università già esistenti e che i servìzi sociali debbano essere ridotti, se si vorrà tener bassa la spesa pubblica e cercare di porre un freno all'inflazione. Gli inglesi sono quindi ad un punto assai critico della loro storia. Se dovessero continuare a dibattersi a lungo nelle secche di una cultura e di un'economia stagnanti, costituirebbero un grave problema per il resto dell'Europa: quello di una società sostanzialmente immobile, e che si impoverisce progressivamente, al centro di un sistema il quale, pur con tutti i suoi dilemmi e le sue difficoltà, non manca certo di vitalità e dinamismo. Mario Deaglio Londra. Al « mercatino » di Portobello Road, cercando un buon affare (Team)

Persone citate: Alberto, Churchill, Peter Shore, Thatcher, Vittoria