Diritto di morire e di vivere di A. Galante Garrone

Diritto di morire e di vivere La sentenza per Karen Quinlan, in coma da 7 mesi Diritto di morire e di vivere Il giudice americano Mwr, dopo cinque giorni di udienze, aveva detto di aver bisogno di una pausa di riflessione prima di decidere il caso di Karen Ann Quinlan. Dopo due settimane, ha emesso la sua sentenza, con 50 pagine di motivazione: Karen deve sopravvivere. Mi è difficile, così sui due piedi, e in poche righe, dire la mia: e sentenziare a distanza può anche apparir presuntuoso, tanta è la pietà del caso. Qui vorrei solo sfiorare due temi affrontati dal giudice. Esiste un diritto dì morire »? Sì, direi. L'uomo può sottrarsi sempre alla vita: anche e più se lo fa per porre fine a sofferenze (fisiche o morali) talvolta atroci, o per escludere la prospettiva certa di una propria sopravvivenza puramente vegetativa, che ai suoi occhi non fosse più neanche vita degna di essere vissuta. Ma — mi pare vada detto con altrettanta perentorietà — non è consentito a nessuno di sostituirsi al ti¬ tolare di questo diritto personalissimo, sia costui maggiore o minore di età, cosciente o incosciente, in coma da mesi o da anni. (Si è parlato di recente di una vecchia di Mirandola, in coma da nove anni). Più opinabile l'altro tema. C'è un punto al di là del quale non è più il caso di prolungare la vita — o quella che è solo un'apparenza di vita — con mezzi artificiali, come il respiratore meccanico applicato alla giovane Karen, o altri apparecchi? Qui, direi, l'ultima parola spetta alla scienza medica, in concreto ai medici che hanno la responsabilità della cura del paziente. In questo campo, sappiamo che prevale la regola deontologica del lottare fino all'ultimo e con ogni mezzo contro la morte, per salvare una possibilità anche remota, e infinitesimale, di ripresa o sopravvivenza sia pure parziale. Non mi sento di condannare questo principio: an¬ che se so, e tutti sappiamo (per dolorose esperienze vissute) quanto sia a volte moralmente crudele, e quasi insostenibile, fino ai limiti dell'assurdo, la sua osservanza (alla quale, per quel che mi riguarda, io forse i mi ribellerei). Tocca dunque ai medici dire quando c'è morte, reale, assoluta, definitiva morte; e far di tutto per allontanare quel punto fatale. Quel che non si può am-1 mettere è la relatività dei criteri, il distinguere caso da caso: e dar peso a situazioni particolari, come la durata del male, la sua irreversibilità, l'incoscienza del paziente, la morte di un organo nel sopravvivere di altri. Si è spesso parlato in questi ultimi tempi, dai profani, di elettroencefalogramma « piatto », come di un segno necessario e sufficiente del trapasso. Ma allora, vien fatto di chiedersi, come si possono giustificare certi trapianti del cuore ancor vivo? Naturalmente, io sono trop¬ po digiuno di scienza medica per pronunciarmi su tali delicatissime questioni. Anch'io credo, come il giudice Muir, che occorra rimettersi, in casi come l'attuale, alla decisione, certamente ardua, dei medici. Ma quel che da semplice uomo della strada ritengo possa dirsi, è che sarebbe estremamente pericoloso, e addirittura aberrante, l'introdurre distinzioni e limiti al diritto alla vita. Si pensi all'eliminazione di mentecatti, o fisicamente tarati, e tanti altri infelici, attuala dal regime nazista. Lasciando da parte ogni retorica (e puramente retorico ci parrebbe invocare questo principio contro l'aborto nei primi mesi di gravidanza, anteponendo una semplice spes vitae alla responsabile vita della madre), possiamo concludere che non solo la legge, ma anche il comune sentire imponga ad ogni costo il rispetto della vita umana. A. Galante Garrone

Persone citate: Karen Ann Quinlan, Karen Quinlan, Muir